Del: 26 Marzo 2020 Di: Redazione Commenti: 0

Spesso ci chiediamo come sia la vita di un rifugiato, il suo viaggio, la famiglia che ha perso, tutte quelle piccole cose che fanno di quel numero una persona. Quello che vorremmo raccontarvi in questo piccolo spazio è la storia dei popoli nomadi, non per scelta ma per necessità.


La seconda tappa del viaggio è l’Asia.

Le storie di qualche migliaio di migranti dicono molto del mondo in cui viviamo. La prima riguarda i migranti filippini, la generazione Manong, che per prima giunse negli Stati Uniti (Vox ha realizzato un video molto interessante sull’argomento). Questa prima generazione di migranti filippini giunse negli States tra gli anni ’20 e ’30 del Novecento, sopperendo alla carenza di manodopera dovuta agli Exclusion Acts che impedivano a cinesi e giapponesi di migrare in America.

Agli stessi filippini era permesso spostarsi solo se maschi e senza famiglia, nel tentativo di evitare la formazione di una nuova comunità etnica.

Importante sottolineare la motivazione che spinse il governo statunitense ad accoglierli, ovvero il basso salario che erano disposti ad accettare.

La pratica viene ripetuta con successo da quasi tutti i paesi industrializzati, spesso adottando politiche migratorie per favorirla. Il trend comincia però a cambiare in maniera paradossale dagli anni ’70, con il crollo degli accordi di Bretton Woods.

Se negli anni ’30 erano i cittadini filippini a migrare negli Stati Uniti, ora erano le imprese Yankee a fuggire nei paesi in via di sviluppo. La delocalizzazione divenne quasi un cliché, ma con quali risultati? 

L’economia globale, che prima si reggeva sulla manodopera a basso costo immigrata, si poggia ora su paesi che fanno della convenienza il loro punto di forza: inizialmente Cina e India, poi Vietnam e Bangladesh, le grandi corporations statunitensi e non solo hanno affidato larga parte della loro produzione alla manodopera dei paesi in via di sviluppo.

Messe da parte le considerazioni etiche e politiche, bisogna considerare quelle economiche. Per quanto l’outsourcing abbia garantito una grande varietà di prodotti di buona qualità a basso costo, questa dipendenza ha avuto un’altra conseguenza. Essa infatti affligge ogni settore economico, dai prodotti Apple assemblati dalle fabbriche di Shenzen, ai vinili prodotti in larga parte da una singola impresa vietnamita; capi d’abbigliamento? Bangladesh o Vietnam; prodotti elettronici? Delta del fiume Yangtze, Cina. 

Questa dipendenza ha reso tutti noi dipendenti da “migranti”, industrie avviluppate in una rete di scambi commerciali troppo stretta e troppo poco distribuita. Un quarto del commercio marittimo passa per il Mare della Cina Meridionale; il CoVid-19 ha reso evidente quest’eccesso di dipendenza. Un’economia eccessivamente “centralizzata” non è in grado di ammortizzare gli effetti di grandi crisi globali come un tessuto economico più distribuito potrebbe fare. 

Ma la migrazione d’impresa genera i fenomeni più svariati: migrazioni di massa dalle campagne alle città, sviluppo urbano incontrollato con conseguente uso e abuso di suolo, violente repressioni nelle aree economiche strategiche (come nel caso degli Uiguri). Le conseguenze sono incalcolabili, sebbene la migrazione d’impresa garantisca un enorme sviluppo economico; viene da chiedersi quanto sia dannosa per i paesi coinvolti e il mondo intero.

Il problema fondamentale della migrazione d’impresa è che mantiene dei legami strettissimi con il luogo d’origine.

Le imprese all’estero dovrebbero essere maggiormente indipendenti da quelle locali garantendo maggior elasticità al sistema economico globale. Forse per meglio gestire questi flussi migratori d’impresa dovremmo accettare il fatto che spesso bassi prezzi e buone condizioni socio-economiche non vanno a braccetto.

Forse distribuendo oneri e onori in maniera più ampia e a costo di accettare qualche inefficienza e prezzi un po’ più alti, potremmo garantire un sistema produttivo più sicuro e giusto. In alternativa possiamo vivere con la responsabilità delle nostre non-scelte.     

Articolo di Matteo Cortellari.

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