
Ad oggi tutti gli italiani sono consapevoli che il loro periodo di quarantena continuerà ben oltre Pasquetta. Impegnati a trovare qualcosa da fare all’interno delle case, le scelte delle persone sembrano ricadere come c’era da aspettarsi su attività creative (disegnare, scrivere, leggere), ludiche e culinarie. Probabilmente però il tempo libero chiusi in casa viene speso soprattutto per guardare e ri-guardare dei buoni film in streaming, tanto da spingere siti come MyMovies.it a proporre un catalogo di lungometraggi da guardare gratuitamente sul proprio PC.
Sui social si parla anche dei cosiddetti film da quarantena, una (ipotetica?) categoria di film adatti ad un periodo di reclusione domestica. Probabilmente un genere simile non esiste davvero, eppure c’è un filone di film denominato informalmente one-room che indica quel lavori cinematografici girati esclusivamente in un luogo circoscritto, che sia una stanza, una casa, un’auto, un treno. Di esempi ce ne sono molti: da La finestra sul cortile del maestro Hitchcock a Carnage di Polański.
In questo genere di film l’attenzione viene posta nelle inquadrature, nelle abilità recitative degli attori ma soprattutto nei personaggi e i loro dialoghi. In mancanza di azione e diversità di ambientazioni, il dialogo diventa vero e proprio filo di trama, strumento essenziale attraverso cui si dipanano le vicende, i ragionamenti, gli sviluppi e il finale. Per questo i discorsi diventano cruciali e sono studiati con attenzione in modo da non far cadere nella noia lo spettatore.
Uno degli esempi più importanti, se non vero e proprio capolavoro dialogico di questo genere, è sicuramente il classico del 1957 La parola ai giurati, diretto da Sidney Lumet. Il titolo originale è 12 Angry Men (Dodici uomini arrabbiati) e rende bene il contesto dell’intero film facendo quasi intuire gli scontri dei protagonisti, che appunto sono dodici uomini arrabbiati per un qualche motivo e rappresentano incarnazioni di tipici modi di pensare. Ci sono svariati motivi per cui La parola ai giurati ha meritato un posto nella Lista dei 100 migliori film americani di tutti i tempi.
Tutto il film presenta un’impostazione teatrale e la bravura degli attori è tale da far immergere lo spettatore nella stanza in cui sono chiusi i giurati, quasi che a discutere ci sia anche lui insieme a loro.
Il film racconta la storia di una giuria di dodici uomini chiamati a giudicare della colpevolezza o dell’innocenza di un ragazzo accusato di parricidio sulla base di due testimonianze chiave da parte di un vecchio e di una signora, mai chiamati per nome per tutta la durata del film. Inizialmente la commissione dà per scontata la colpevolezza del ragazzo, ma il giurato n°8 sulla base di un ragionevole dubbio dichiara di non essere sicuro che il giovane abbia davvero ammazzato il padre, ma d’altra parte non è neanche disposto a dichiararlo innocente.
Affrontando la rabbia (da cui il titolo), lo scetticismo e l’ironia degli altri membri della giuria, il giurato n°8 cercherà di motivare le sue ragioni. Quello che sembrava uno scontro di undici contro uno, argomento dopo argomento, si trasformerà ben presto in una discussione accesa tra tutti i membri, i quali sembrano agire e argomentare in base a motivi soggettivi dettati dalle rispettive storie e convinzioni.
Lo spettatore viene agganciato dalle parole dei personaggi, ognuno ben caratterizzato e distinto da qualsiasi altro. Può decidere se l’argomentazione portata avanti da un giurato risulta valida o inconsistente e ragionare a sua volta sulle obiezioni da muovere. Obiezioni che prontamente vengono messe in luce da un altro giurato, non lasciando di fatto nulla in sospeso. Ciò che infatti colpisce di questo film è la capacità della sceneggiatura di coprire tutti i buchi, di non ignorare nessuna contestazione, osservazione e riserva ma di accoglierla per confermarla o confutarla.
In un’ora e mezza, prova dopo prova, la situazione sembra ribaltarsi e quelle che sembravano prove schiaccianti accettate senza spirito critico risultano grazie all’osservazione e al ragionamento reciproco inconsistenti, improbabili, forse impossibili se non addirittura inventate di sana pianta. Gli innocentisti da uno salgono a due; ma gli improvvisi ripensamenti degli uomini arrabbiati sono dietro l’angolo, come ci mostra anche il finale.
Il regista Sidney Lumet, all’epoca trentatreenne, con questo film segna un esordio fulminante e affronta temi delicati quali pregiudizi razziali e violazione di diritti civili in un’epoca ancora chiusa alle distensioni politico-sociali. Il giurato n°8 interpretato da un magistrale Henry Fonda incarna l’uomo privo di pregiudizi, disinteressato, liberale, mosso da una pura spinta di tipo socratico. «Parliamo» è il suo motto. «Non diamo nulla per scontato».
Fin dall’inizio infatti il personaggio di Fonda non dice che il ragazzo sia innocente, ma che non è sicuro che sia colpevole. Una posizione simile avrebbe potuto facilmente essere stroncata sul nascere da parte della maggioranza, ma diventa invece il piccolo passetto, lo spiraglio di luce fondamentale per aprire i giurati al confronto-scontro reciproco che porterà all’emergere della verità.
Verità che è sempre e solo relativa, come il film vuole insegnarci. Infatti nella stanza in cui sono chiusi a soffrire il caldo i giurati non hanno il compito di scoprire chi ha ucciso il padre del ragazzo, ma solo capire oltre ogni ragionevole dubbio perché il ragazzo avrebbe voluto (e potuto) uccidere il padre. Se il motivo e le circostanze non reggono solidamente a qualsiasi obiezione, il ragionevole dubbio permane e il verdetto di innocenza dovrebbe essere emesso.
La verità non ci viene mai mostrata sullo schermo, ma solo costruita in modo razionale e logico attraverso le parole dei personaggi. Si parla infatti di una verità molto più probabile, e non della verità assoluta. Chi guarda lo scontro verbale (a tratti fisico) dei giurati tende a votare per l’innocenza del ragazzo, ma ad un certo punto del film un altro equivalente ragionevole dubbio viene messo nell’orecchio dello spettatore.
L’obiezione speculare viene portata alla luce dal giurato meno approfondito di tutti, il n°6. Egli sussurra all’orecchio del primo innocentista: «Supponga di riuscire a convincerci tutti [dell’innocenza del ragazzo, ndr] e che il ragazzo abbia davvero pugnalato suo padre». Questa obiezione in realtà non viene seriamente presa in considerazione durante il seguito del film, ma in effetti è del tutto plausibile.
Resta allo spettatore scegliere un verdetto e sperare che corrisponda alla verità dei fatti, che non ci vengono mai mostrati.
Tutto ciò ricorda un vecchio dilemma: in caso di dubbi, è meglio un colpevole libero o un innocente in galera? In dubbio pro reo: in caso di incertezze sarebbe preferibile lasciar libero un colpevole che non incarcerare un innocente. Ma non è detto che debba essere sempre così.
Film d’avanguardia per molti aspetti, La parola ai giurati è un’ora e mezza di puro cinema, tutto retto sulle recitazioni e le espressioni dei personaggi. Notevole è l’uso delle inquadrature che si fanno sempre più strette con l’aumentare della tensione e dell’esasperazione della disputa, comunicando un soffocante senso di claustrofobia con i giurati messi sempre più con le spalle al muro e intaccati nelle loro convinzioni. Memorabile Fonda che giustifica il comportamento dell’imputato ricorrendo a brevi analisi sociologiche più che alla colpevolezza interamente individuale.
In definitiva, 12 Angry Men è un film ben costruito. Le grandi interpretazioni attoriali (Jack Klugman, Martin Balsam, Lee J. Cobb) danno vita a protagonisti senza nome, chiamati soltanto con numeri da 1 a 12, eppure sufficienti per segnare la memoria del cinema.
Un piccolo cenno va fatto anche al grande Lee J. Cobb, giurato n°3, che ci regala momenti di intensa emotività (come dimenticare il finale?), doppiato con l’imponente voce di Emilio Cigoli. Figura chiave, il giurato n°3 manifesta una viscerale avversione per i giovani a causa di motivi personali che riguardano il suo essere padre. La scena in cui, finalmente calmo, si confronta con il primo giurato innocentista, è toccante.
Totalmente opposta è la personalità del giurato n°4 che si evidenzia per i suoi modi cortesi e per la sua calma, oltre all’approccio sicuro e pacato. Ogni giurato dà così la possibilità allo spettatore di immedesimarsi.
E tutto questo viene reso possibile, ricordiamolo, esclusivamente con una stanza e dodici persone che parlano di un fatto a cui nessuno di loro ha assistito.