Del: 2 Aprile 2020 Di: Redazione Commenti: 0

Noi redattori di Vulcano, rinchiusi in casa, abbiamo deciso di raccogliere opinioni e sensazioni su questo strano periodo che come tutti stiamo vivendo. Ecco le ultime.


Rumore e silenzio – Federica Braga

Frenesia. Luci, colori, suoni, palazzi, voci, il suono delle scarpe che risuona, le strade che tremano al passaggio dei tram, i ristoranti pieni di risate, il bar preferito all’angolo della via di casa, dove ti conosco per nome e sanno già cosa ordinerai ancora prima che tu lo chieda. Il lavoro, le lezioni all’università, la tesi, sono in ritardo con la consegna, l’uscita con gli amici la sera, dopo una giornata piena, mi sono dimenticata di andare in palestra, sarà per domani. Vorrei solo un giorno per me, senza dover far correre la mente a tutto ciò che devo fare o avrei dovuto fare; vorrei solo un giorno di silenzio per sentire i miei pensieri, per riordinarli, per avere un attimo di tregua, per riposare queste gambe stanche di cercare di stare al passo con la routine. Quanto è difficile rimanere in equilibrio in questa città che sembra non dormire mai, un po’ come la New York di Frank Sinatra. Come è difficile rimanere a galla in questo mare di impegni che ci creiamo ogni giorno. Sarebbe così semplice fermarsi, anche solo per un giorno, non chiedo molto.

Blocco. Tutto è spento, le luci dei palazzi si tingono dei colori della bandiera italiana per stringersi intorno a un popolo addolorato, un paese che adesso fa fatica a stare a galla in balia delle onde. Il bar preferito potrebbe fallire, assieme a tanti altri, le serrande dei ristoranti sono abbassate, “chiuso fino a data da destinarsi” recitano i cartelli scritti frettolosamente a mano, perché nessuno se lo aspettava, chi poteva immaginarsi che lo sfavillante mondo che abbiamo costruito si spegnesse come una candela che ha consumato tutta la sua miccia.

Silenzio. Un silenzio surreale, spettrale,i pochi tram sembrano passare quasi in “punta di piedi” per lasciare spazio al suono delle sirene, troppe sirene. I pensieri, quelli che pensavo di poter riordinare, ora rimbombano più forti di prima; cosa succederà? Quando finirà? Ho paura, sono fragile, e se dovesse capitare anche a me? Non riesco a zittirli, il cervello li produce come proiettili vaganti, pronti ad esplodere per fare ancora più male.

Casa. Le pagine dei libri scorrono sotto le dita, era da tanto che non leggevo per il puro piacere di farlo, senza sentirmi quasi in colpa di sacrificare tempo prezioso. Che cosa stupida sacrificare ciò che ci piace di più fare. Le parole confortano, permettono a questo tempo che prima mi mancava sempre e ora mi sembra quasi superfluo di passare. 

Famiglia. I giochi di società impolverati ora sono fuori, senza che sia la vigilia di Natale o l’ultimo dell’anno. La pasta fatta in casa, passare l’aspirapolvere me lo ricordavo molto più noioso, una tortura, mi stupisco di trovare piacere in azioni così piccole, quotidiane, silenziose.

Solitudine. Quanto è difficile stare da soli, guardarsi dentro, ascoltarsi, capirsi, rincuorarsi senza il contatto fisico, senza un abbraccio, quanto mi mancano gli abbracci. Quanto è difficile sentirsi spaesati, senza risposte, nemmeno dalla scienza, senza una data di scadenza. Quanto è difficile pensare al domani senza sapere come sarà quel domani, quanto è difficile rendersi conto di essere umani, non destinati all’invincibilità ma alla sorte, alle scelte, allo scorrere del tempo, legati a quell’orologio che ormai non sembra nemmeno muovere le lancette. 

Eppure, forse è paradossale, siamo mai stati più uniti di adesso? Ci siamo mai aiutati così tanto come ora? Ci siamo mai rimboccati le maniche come in questo momento? Se così fosse, io non lo ricordo. Forse ero troppo impegnata per guardare, forse mi è sfuggito tra un viaggio in metro e un bicchiere di vino.


Lontano dagli occhi – Laura Colombi

Mi capita spesso di ricordare dei motivetti di canzoni in base al mio stato d’animo e di non riuscire più a togliermeli dalla testa. In questi giorni di isolamento, compagno invadente della mia quarantena è stato Lontano dagli occhi di Sergio Endrigo, un classico della musica leggera del 1969. Il brano è narrato in prima persona da un uomo che ha perso una donna e, addolorato dall’accaduto, si sente consigliare da un amico il detto popolare “Lontano dagli occhi, lontano dal cuore”, secondo il quale la distanza fisica si trasforma, o almeno può trasformarsi, in distanza mentale, affettiva. Questa frase, pronunciata per essere di conforto, finisce per suscitare l’effetto opposto nel protagonista, che diventa terrorizzato dall’idea di perdere il ricordo, cioè l’ultimo lascito della presenza della persona amata: Per uno che torna / e ti porta una rosa / mille si sono scordati di te.

Il brano di Endrigo è insomma molto più che il lamento di un amante infelice e anzi tocca alcuni punti fondamentali sul tema della distanza. Lo sa bene chi, in questi giorni, ha visto come scomparire un proprio parente poi ricoverato da Covid, o chi, peggio ancora, non lo rivedrà mai, senza avere la possibilità di portare una rosa. In questi giorni non posso fare a meno di rivolgere di tanto in tanto un pensiero a questa sterminata folla di persone cui sono mancati – anzi, sottolineo, spariti – amici, parenti, conoscenti. Non mi sembra possibile potere ignorare tutto questo dolore: sento che dovremmo prenderci del tempo per riflettere e metabolizzare quanto accade, mentre quello che stiamo facendo è fingere di continuare a condurre la stessa vita di prima, anche se in sedi e con modalità differenti. Ritornando al detto popolare, resta pur vero che il più delle volte lontananza fisica e mentale coincidono. L’ho appreso fino in fondo solo in questa situazione: tutti noi, infatti, avevamo non solo letto, ma visto fotografie e video sugli effetti del Covid a Wuhan già da gennaio. Per non parlare dell’elevata possibilità di sviluppo di epidemie dovuta allo stretto contatto tra uomo e animale, già provata da autorevoli studi scientifici.

Tutto ciò non è stato però sufficiente per metterci in guardia. Il paradosso è che viviamo in un mondo globalizzato ma non ci pensiamo ancora davvero come un organismo unico. Forti della nostra distanza geografica ci siamo sentiti protetti. Non solo: anche quando pensiamo o cerchiamo di essere empatici con gli altri e quindi di avvicinarci alla loro condizione, non capiamo fino in fondo una cosa finchè non la proviamo in prima persona. La preoccupazione e lo sconforto che provavo vedendo i notiziari non sono minimamente paragonabili alle emozioni che ho provato il giorno della scoperta del paziente 1, a Codogno, una manciata di chilometri da casa mia.

I video di Wuhan deserta non mi hanno ferito quanto aggirarmi per le vie desolate del centro storico della mia Lodi. Come si vivesse, poi, confinati nel silenzio della propria casa mentre dall’esterno risuonano le sirene delle ambulanze, non l’avevo nemmeno immaginato. Nè ho avvertito fino in fondo lagravità della situazione finchè non sono venuta a conoscenza di casi legati a conoscenti. Nel suo trattato sull’amicizia, Cicerone parlava dell’esistenza di una societas, una rete di relazioni a cerchi concentrici, che lega l’umanità tutta: il legame più stretto è con gli amici, poi c’è la parentela; infine quello con i concittadini, inteso come gli abitanti di uno stesso luogo, che sia città, regione, stato. Penso sia una forma mentale che dovremmo superare, in un mondo globalizzato. Dovremmo smettere di considerarci altro – almeno finché il guscio esterno dei cittadini non viene spezzato – e rimanere indifferenti di fronte ai disastri ambientali, ai conflitti e a tutti i gravi problemi che affliggono chi consideriamo altro da noi, perché la terra è una e la condividiamo – insieme a tutti gli altri esseri viventi.


Si conclude così la nostra rubrica dedicata alla quarantena. Tutti gli articoli sono reperibili sul nostro sito.

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