Videochiamate con gli amici, canzoni al balcone, e-learning, smart working e persino messaggi istituzionali del presidente del Consiglio Conte: tutto questo negli ultimi mesi è stato vissuto attraverso uno schermo, immagini consegnate dai server ai dispositivi che hanno permesso di restare aggrappati al mondo messo in pausa dal lock-down.
Ma se non fosse stato possibile? E se Internet non ci fosse stato? Una tragedia nella tragedia.
Tuttavia è stata la realtà di molte persone, in Italia e nel resto del mondo, e non solo durante l’emergenza. Esiste una fetta del pianeta -– anche abbastanza grande -– che non sa nemmeno cosa sia la connessione alla rete, o peggio, lo sa, ma non ha i mezzi per procurarsela, vivendo costantemente un passo indietro rispetto all’umanità che va avanti tra un video di gattini e un post su facebook. È il digital divide, non solamente un fenomeno che separa la Terra in due fazioni, gli haves e gli have-nots, chi ha internet e chi no, ma che influisce sulle dinamiche sociali, sulla politica, sull’economia, sull’istruzione, ovunque, e la pandemia ha evidenziato particolarmente tutti i suoi effetti.
Cos’è, quindi, il digital divide? Letteralmente è il “divario digitale”. Il termine -– reso celebre dal vice presidente americano Al Gore nel 1996 quando ha detto “our children will never be separated by a digital divide” -– comprende non solo la possibilità di accedere al solo internet, ma in generale ai mezzi comunicativi e di informazione. Il divario può essere originato da diverse cause. La più immediata è sicuramente la scarsità del reddito; è palese guardando le statistiche che nei paesi più ricchi si ha una maggiore penetrazione del digitale, e altre in cui il solo possesso di uno smartphone sembra un’utopia, basta pensare ad alcune realtà, come quella di certe zone dell’Africa, in cui per avere un minimo di accesso all’informazione viene acquistato un cellulare che deve bastare a tutto il villaggio.
Tra le cause rientrano anche l’istruzione e il genere: il grado di preparazione, la digital literacy che permette di fare un uso adeguato del medium digitale, è fondamentale per motivare all’utilizzo di un computer, di un telefono o della connessione; infine per questioni sia economiche, che culturali, è molto comune nel mondo una distinzione tra uomini e donne, i primi favoriti nell’accesso alla tecnologia.
Ma cosa è successo con l’epidemia?
Come accennato prima la rete è stata il mezzo di socialità per eccellenza, l’appiglio al mondo esterno che permetteva di uscire dalle quattro mura di casa a respirare un po’ di vita, anche se virtuale.
Ma c’è chi questa vita non l’ha potuta respirare. La percentuale di accesso a internet nelle case nel 2018, come rileva l’Eurostat, sullo stivale è dell’84%, un valore elevato sì, ma forse non abbastanza per una società sempre più smart, che non sembra voler rinunciare a breve all’educazione e al lavoro digital. Lo dimostra bene il piccolo Giulio, che per poter studiare si è ritrovato a dover portare libri e banco nei campi, alla ricerca disperata di una connessione web che gli permettesse di seguire le lezioni con i suoi compagni. Per non parlare dei risvolti psicologici di questa realtà: come può sentirsi una persona, già isolata dal lock-down, quando uscendo finalmente di casa, si rende conto che il mondo non è stato mai davvero disconnesso, lasciando indietro chi di questa connessione non poteva usufruire, generando solitudine nella solitudine?
Se ne parla da anni e ancora non si fa abbastanza. Risale al luglio 2014 la proposta di Laura Boldrini di una Internet Bill Of Rights italiana, che garantisse l’accesso a internet a tutta la cittadinanza, la nascita del Comitato interministeriale per la banda larga -– il sistema attraverso il quale trasmettere rapidamente i dati -– risale però al 2007, e da quell’anno al 2014 gli investimenti in questo ambito furono poco più di 1,1 miliardi, forse troppo poco per la rete fissa, quella che permette di usufruire di internet da casa.
Alla luce del recentissimo rapporto DESI -– digitalizzazione dell’economia e della società -– ossia lo strumento della Commissione Europea per monitorare il progresso digitale degli Stati membri dal 2014, gli sforzi fatti dall’Italia, la quale ha avviato un piano per passare dalla banda larga alla banda ultra larga, la portano a collocarsi solo al diciassettesimo posto per l’alta velocità sulla rete fissa, posizionamento poco inquietante però, se paragonato al venticinquesimo per competenze digitali della popolazione. Questo dato informa le istituzioni del fatto che investire solo nella parte “fisica” della rete, non basta, ma che bisognerebbe fornire ai cittadini anche i mezzi cognitivi per sfruttarla: la banda ultra-larga sarebbe una spesa inutile, se non si fosse in grado di utilizzarla.
Il gap digitale si sta ampliando, in quello che viene definito l’effetto San Matteo del digital divide, che si fonda sul principio del ricco che diventa sempre più ricco e del povero che diventa sempre più povero. L’ epidemia ha infatti allungato le distanze tra chi ha la possibilità -– fisica e culturale -– di usufruire del web e chi no, che resta sempre quel passo indietro dal punto di vista umano, sociale, economico, e sente questa distanza. Il rapporto del Capgemini Research Institute, che ha definito quello del Covid-19 il Great Digital Divide, riporta che chi non ha accesso alla rete avverte che se gli fosse data questa possibilità avrebbe maggiori chances di istruirsi e di avere un lavoro migliore.
Un’autentica piaga sociale del nuovo millennio, l’ennesima forma di differenziazione che impone la sua pesante presenza in un tempo dove di differenziazioni e iniquità ce ne sono fin troppe. E tutti coloro che sostengono il “beati loro”, nascondendosi dietro la trita e ritrita retorica del “senza social, senza internet, si stava meglio” forse dovrebbero parlare con il piccolo Giulio, o con chi come lui si è ritrovato a dover vivere in una situazione del tutto nuova, con i suoi pregi e i suoi difetti, senza avere i mezzi adeguati per affrontarla, e non solo tecnologici, ma, sulla base di un problema di “educazione digitale” che esiste già da tempo, anche culturali.
Quello che manca in Italia è una vera e propria cultura del digitale, manca una spinta a livello educativo per “insegnare internet” alla popolazione. Nel ‘96 Al Gore affermava il suo desiderio di non vedere i giovani separati dal divario digitale, verrebbe da chiedersi se qualcuno, oltreoceano, lo stesse ascoltando.