
Emma. si scrive proprio così, con quel punto finale: è uno dei film che in questo sfortunato periodo sono finiti a portata di clic senza passare dal grande schermo. La regia è della fotografa Autumn de Wilde, la sua prima in ambito cinematografico: la stessa artista si era occupata di promuovere l’uscita del film con delle locandine rivelatrici di quello che avremmo dovuto vedere al cinema.
Emma è la stessa della quale scriveva Jane Austen nel 1815: “handsome, clever, rich”, i tre aggettivi che la scrittrice utilizzava nel XIX secolo per presentare al lettore la sua protagonista compaiono ora sulle foto promozionali, scatti di ogni personaggio del film realizzati dalla regista.
Ognuno con un costume dell’epoca diverso, ognuno con la propria piacevole armonia di colori: così Emma Woodhouse nel 2020 ha l’incredibile espressività degli occhi di Anya Taylor-Joy, i suoi strettissimi boccoli biondi e sembra essere abituata da sempre a volteggiare da una stanza all’altra della sontuosa tenuta di Hartfield, nella campagna inglese (Highbury, ci dice Austen), dove vive con il solo padre, un Bill Nighy che ben ritrae l’ossessiva ma al contempo spassosa tendenza paranoica del signor Woodhouse.

La lontana ritualità dei balli, le distese sconfinate di colline attraversate da personaggi in abbigliamento Regency, la sentita questione di classe nell’Inghilterra ottocentesca e così via: nella storia in sé, non manca nulla di quello a cui Austen ha abituato il suo pubblico. Quest’ultimo, soprattutto ai tempi contemporanei all’uscita del romanzo, deve esser stato spiazzato però da un particolare: Emma non è un’eroina e Austen non vuole servirsi di un personaggio femminile per elogiarne le sole qualità morali.
Emma ha stabilità finanziaria, un padre completamente indifferente a un suo futuro possibile matrimonio, e lei stessa non sembra collocarsi in quella che ai tempi era la classica narrazione riservata all’universo femminile.
La ventenne è ben consapevole dei propri privilegi, certo non immune al banale fantasticare su di un possibile futuro con un giovane tanto facoltoso quanto inconsistente – che nella storia esiste e si chiama Frank Churchill (Callum Turner) –, ma quello che più la intriga è la possibilità di ficcanasare nelle vicende amorose delle persone a lei vicine e proporsi come un cupido dell’era georgiana.
Questa sua inclinazione, che inclinazione non è, quanto piuttosto un misto di inesperienza dai risvolti disastrosi e inevitabili luoghi comuni assorbiti dall’ambiente privilegiato nel quale è immersa, detta l’andamento della vicenda e degli incontri-scontri della protagonista con gli altri personaggi.

Autumn de Wilde ha studiato la resa visiva di questa vicenda dai riscontri umani tutt’ora attuali – senza scomodare femminismi o adattamenti “moderni” – come solo una fotografa poteva fare. Ogni scena mostra un attento dialogo tra più componenti: quella musicale, la minuziosa decorazione e ricostruzione degli interni e uno studio magistrale della costumista Alexandra Bryne, che ha donato un’aderenza pressoché totale a quelli che erano i vestiti dell’epoca.
La regia di de Wilde si ciba principalmente di colori: tanti, significativi, distintivi, sempre presenti.
È praticamente impossibile evitare di pensare al ritratto che nel 2006 Sofia Coppola faceva di Marie Antoinette: pop, caleidoscopico e volutamente provocatorio (come dimenticare il paio di Converse All Star inquadrate mentre la camera passa in rassegna le eleganti calzature della sovrana di Francia) è quanto di più lontano dai colori di Emma., che invece sono prima di tutto una veritiera testimonianza storica.
Più colori, più ricchezza: per questo motivo le diverse scelte nel vestiario sono le prime spie delle diverse estrazioni sociali. L’occhio di Autumn de Wilde sa bene come valorizzare il ruolo e la bellezza dei costumi, che non sono meramente accessori: per anni l’esordiente regista ha infatti lavorato a fianco di un brand come Rodarte, permettendole di sviluppare un particolare gusto estetico che già strizzava l’occhio a un taglio cinematografico.
Ogni volta che Anya Taylor-Joy appare indossando un vestito in muslin vorremmo allungarci e poterlo toccare: in questo senso, Emma. sembra essere stata un’occasione cucita ad hoc per aprire a de Wilde le porte della cinematografia.

Ma dietro alla macchina da presa c’è una donna che ha fotografato cantanti come Elliott Smith e diretto video per Florence + The Machine. La sensibilità musicale in Emma. è imprescindibile: i personaggi sembrano appropriarsi del proprio spazio accompagnati da una musica che in realtà non sentiamo.
De Wilde ha pensato meticolosamente anche ai momenti in cui la musica fa da sovrana: ispirata dalla composizione di Prokofev, Pierino e il lupo, ha chiesto a Isobel Waller-Bridge – sorella di Phoebe – di tradurre le sue immagini in musica, che scivola così nel mondo dipinto dalla regista rispettandone ed esaltandone le scelte.
Le due ore di Emma. sono uno squisito promemoria degli innumerevoli ingranaggi della macchina del cinema, e di come questa funzioni alla perfezione quando alla guida c’è chi è disposto a condividere – e non imporre – il proprio talento.
