Del: 9 Luglio 2020 Di: Elisa Torello Commenti: 0

«Stiamo vivendo l’evento più totalitario a livello globale della storia dell’uomo. Cosa proveremo ripensandoci? Cosa conta davvero?»

È con questa domanda che si conclude uno dei diciassette cortometraggi raccolti nella nuova serie targata Netflix: Homemade. Il progetto, partito da un’idea di Lorenzo Mieli (The Apartment Pictures) e dei fratelli Larraín (Fabula), ha visto coinvolti celebri registi da ogni parte del mondo.

Ognuno di loro ha girato un episodio raccontando secondo il proprio stile la vita durante il confinamento imposto dalla pandemia di coronavirus.

Il risultato è un’antologia di testimonianze dalla quarantena, che provano a immortalare le impressioni e i sentimenti causati da questa grande esperienza collettiva. 

Gli autori dei corti si sono trovati di fronte alla sfida di rappresentare un momento storico così particolare, e di attuare questa rappresentazione adattandosi al contesto imposto dalla mancata possibilità di contatto con gli altri.

I filmati sono stati infatti realizzati usando solo le attrezzature trovate a casa. Lo stesso Sorrentino, autore del secondo episodio della serie (Voyage au bout de la nuit), ha spiegato come questo processo creativo di ricerca di una storia e dei personaggi all’interno della propria abitazione, gli abbia ricordato il periodo in cui da ragazzino sognava di fare questo lavoro.

Un’operazione di estrema creatività quindi quella che ha visto impegnati i diversi registi, e che ha portato proprio per questo a risultati completamente differenti tra loro e mai banali.

Se alcuni episodi (in particolare il primo e l’ultimo) si focalizzano sull’impatto socioeconomico e culturale della pandemia, gli altri si collocano su generi molto diversi: dal thriller al racconto emotivo e poetico, fino ad arrivare al musical e all’horror. 

La serie si apre con un adolescente al buio nella propria stanza, illuminato solo dallo schermo del proprio telefono, che tiene in mano. Fin da subito emerge la centralità dei dispositivi digitali, strumenti fondamentali durante la quarantena, che hanno reso a tutti l’isolamento più sopportabile e che saranno il perno centrale di due episodi della serie: il quarto di Larraín e il quinto di Nyoni.

Il regista del primo episodio, Ladj Ly, premiato recentemente a Cannes per I miserabili, racconta in pochi minuti la giornata di un ragazzino, che chiuso in camera occupa il proprio tempo in diverse attività per poi prendere un drone giocattolo e osservare la vita del proprio quartiere: Montfermeil, nella periferia di Parigi.

L’intento dell’autore è quello di mostrare come la pandemia globale abbia in realtà colpito ognuno in maniera diversa, a seconda della propria condizione sociale. La denuncia si intuisce attraverso le parole finali: «Se sono tempi difficili, per chi lo sono?». 

Il corto di Ladj Ly

Sorrentino, nel secondo episodio, si distingue per la capacità di trattare il tema in chiave ironica. Mette infatti sulla scena, attraverso l’uso di statuine da presepe, la Regina Elisabetta, in visita al Vaticano, e Papa Francesco. I due personaggi si trovano costretti ad affrontare la quarantena insieme. I loro dialoghi sono uno spunto di riflessione per indagare il senso dell’isolamento al quale tutto il mondo è costretto. Quando il pontefice fa notare all’amica inglese la loro posizione privilegiata rispetto agli altri («Loro hanno 50 metri quadri, noi 50 ettari»), la sovrana risponde che l’isolamento è una condizione dello spirito. 

Il regista mette quindi in luce come la solitudine sia una questione anche (e soprattutto) interiore. 

Rachel Morrison nel terzo episodio The Lucky Ones, scrive una lettera al figlio di cinque anni. L’autrice riflette sulla propria infanzia con la madre malata di cancro e disegna un paragone con la condizione che i suoi figli stanno vivendo, costretti al confinamento in casa.

La speranza è quella di rendere tollerabile per i propri figli l’esperienza vissuta e di far sì che ricordino i momenti positivi passati insieme, così come sua madre fece con lei.

Ha un tono provocatorio l’episodio di LarraínLast Call, in cui un anziano in una casa di riposo chiama via Skype una donna con cui è stato anni prima e le confessa il suo amore in un romantico addio, che riserva molte sorprese. L’intero episodio è stato girato da remoto, tramite computer.

A scegliere di imitare la realtà attraverso l’uso sapiente dei mezzi digitali, è stata anche Nyoni che nel suo episodio rappresenta una coppia che decide di lasciarsi durante la quarantena e che si trova però costretta a continuare la convivenza. L’intero episodio è raccontato attraverso le chat dei protagonisti. 

Natalia Beristáin a Città del Messico invece in Espacios, immagina la figlia Jacinta da sola nel mondo e disposta a svolgere anche le pulizie di casa pur di tenersi occupata. 

Schipper si focalizza sulla ripetitività delle giornate chiuso in casa e immagina un suo doppio e poi un suo triplo, in una gag visuale che risente sicuramente dell’influenza stilistica del social Tik-Tok.

Anche Mackenzie a Glasgow mette sullo schermo la propria famiglia, di cui presenta uno studio attento e delicato in cui la monotonia dell’isolamento è intervallata da rari momenti di contatto sociale (a distanza di sicurezza) con vicini di casa e amici. Colpiscono le parole della figlia che porta lo spettatore a riflettere sulla rabbia legittima di una adolescente costretta a crescere in quarantena e che con gli occhi gonfi di lacrime confessa: «Volevo fare altre cose prima di compiere sedici anni».

In maniera simile Labaki e Mouzanar nell’undicesimo episodio danno voce alle parole e ai pensieri della propria figlia Mayroun, che a soli quattro anni improvvisa in una stanza gli incubi e le fantasie di una bambina. 

Il regista cinese Johnny Ma invece, in una lettera alla madre lontana, racconta della sua vita in Messico e di come abbia cucinato con la sua nuova famiglia i ravioli secondo la ricetta tramandata dalla madre. 

Emergono i valori e i sentimenti associati anche ai più piccoli gesti. 

Lo stesso fa anche Chadha, celebre regista indiana, che attraverso le parole del figlio racconta come l’isolamento abbia fornito alla sua famiglia un’occasione di comunione e di riconquista del tempo insieme.

Naomi Kawase riesce perfettamente nel trasmettere l’angoscia causata dalla chiusura nel proprio appartamento, attraverso un uso sapiente della luce e un ritmo martellante scandito anche dalle notizie in sottofondo che annunciano il numero di morti e di contagiati. 

Alcuni registi hanno deciso di usare questa opportunità per sperimentare con generi e forme diverse. Un esempio è quello di Penelope di Maggie Gyllenhaal, che mette in scena un piccolo corto fantascientifico. La regista americana immagina un virus misterioso in grado di attaccare anche il sistema solare e di modificare le leggi della fisica. Al centro della trama c’è un uomo solo, interpretato dal marito Peter Sarsgaard, che tenta di sopravvivere in un contesto così lontano dalla normalità. 

Antonio Campos invece realizza una sorta di horror psicologico: il ritrovamento di un uomo addormentato su una spiaggia porta due donne a decidere di prendersi cura di lui, invitandolo in casa propria. Seguiranno eventi inquietanti attraverso i quali il regista mette in scena metaforicamente l’arrivo del virus, dando letteralmente corpo alla presenza estranea di qualcosa d’inaspettato nelle vite dei personaggi. 

Notevole è anche il thriller psicologico in cui si auto dirige Kristen StewartCrickets. La protagonista è una donna prigioniera di una routine distruttiva che, divisa tra l’insonnia e la noia, fatica a distinguere il sogno dalla realtà. 

Crickets di Kristen Stewart

Il regista cileno Lelio in Algoritmo sceglie di raccontare l’isolamento attraverso la forma di un musical recitato tra le mura domestiche da Amalia Kassai. 

Una danza canora che diventa canto politico, collocandosi sulla scia del canto collettivo Il Cile si è svegliato, simbolo di protesta sociale.

A chiudere la serie è l’episodio girato dalla regista Ana Lily Amirpour che in Ride it Out attraversa in bicicletta una Los Angeles deserta, accompagnata dalla voce narrante di Cate Blanchett. Attraverso delle riprese girate dall’alto con l’aiuto di un drone ottiene inquadrature su Hollywood Boulevard e sul Chinese Theatre: sono un’occasione di riflessione sulle conseguenze culturali che il virus ha portato con sé, soprattutto in settori come il cinema. 

Lo scenario è quello di un film post-apocalittico, eppure l’approccio rimane propositivo. 

Amirpour invita a ripensare alla fragilità umana e a come questa situazione ci abbia forzato acambiare prospettiva, a imparare un modo nuovo di vivere. L’arte secondo l’autrice consiste proprio in questo: adottare un punto di vista nuovo verso qualcosa di familiare. 

Alla fina la voce di Blanchett ricorda allo spettatore che in questa condizione di pandemia si può scegliere di contare le cose che ci sono state tolte oppure di fermarsi e di notare intorno a noi quelle che invece ci sono rimaste. 

Elisa Torello
Sono nata a fine agosto a Milano, ma sogno il mare ogni giorno. Mi illudo di catturare la realtà che mi circonda attraverso la fotografia e la scrittura. Mi piace parlare di libri e di idee, ma spesso mi soffermo troppo sui dettagli.

Commenta