Li chiamano riders, corrieri, e sono il simbolo della rivoluzione che ha colpito il mondo del lavoro negli ultimi anni. Una nuova generazione di precari, indifesi e martoriati proletari che permettono alla società di adattarsi a ritmi frenetici e sempre più viziati.
La tecnologia, il social network, fuoriesce dal suo spazio abituale e invade la nostra realtà: dietro la maschera infiocchettata ben bene delle grandi compagnie, si nascondono i veri sfruttati, una nuova classe di lavoratori pressoché abbandonati a sé stessi, spesso con la scusa del guadagno sicuro permesso grazie alla discutibilissima formula a cottimo (più lavori più guadagni), senza una minima garanzia sulla malattia, sicurezza sugli infortuni o anche le più banali conquiste sindacali dei tempi passati (come ferie pagate o maternità).
La rivoluzione digitale portatile costituisce spesso un interesse mediatico non indifferente, che vede in primis i grandi uomini di cinema in testa per criticare la situazione sociale andatasi a creare.
Parasite di Bong Joon Ho è l’esempio che più si presta a rappresentare una società incoerente, enormemente divisa tra il ricchissimo e il poverissimo. Il film pluripremiato agli Oscar, decantato dalla critica e dal pubblico, mostra un mondo letteralmente sommerso dove gli indigenti vivono senza raggiungere la superficie, terra biologicamente predestinata ai padroni. Con una struttura visibilmente gerarchica della società è impossibile scalare, furbescamente, i gradini della piramide come tenta la famiglia Kim nel film.
La critica raggiunge connotati estremi formando, volontariamente, un’impossibile amalgama della società che nel film è ben sottolineata in tutti i suoi aspetti tecnici e drammaturgici: la regia ben composta, divisa geometricamente, che non vede mai un incontro fisico tra le famiglie Kim e Park, la fotografia che contorna l’ottima direzione di Bong Joon Ho colorando drammaticamente le scene, la scenografia protagonista della scena, l’architettura in particolare gioca un ruolo fondamentale, dividendo la sontuosa villa dei Park in tre livelli impossibili da coniugare tra loro, e infine l’atteggiamento di ribrezzo nei confronti della servitù parassitaria da parte dei padroni, la loro ingenuità e soprattutto la loro contraddittorietà comunicano l’insensibile ignoranza dai più nei confronti dei bisognosi.
Bong Joon Ho gira anche Snowpiercer, qualche anno prima di Parasite, traendolo dalla graphic novel francese Transperceneige a opera di Jacques Lob e Jean-Marc Rochette, altra analisi interessante di una società in rotta di collisione: a metà tra il thriller fantascientifico e il dramma sociale, con sfondo il non indifferente problema ambientale, Snowpiercer è un film che riflette sulla situazione della disparità tra le classi, descrivendo un futuro distopico tra i più tragici e fantasiosi e immergendo i protagonisti in una realtà concretamente dittatoriale.
Anche qui i punti forti di Snowpiercer vedono la classe proletaria in perenne asservimento, ribelle, segregata nella coda del treno e cinta dalle barriere dei potenti; la scalata al successo è piena di insidie e praticamente impossibile, non tanto per la sua difficoltà fisica, quanto per la struttura sociale costruita dallo sfruttamento degli stessi impotenti.
Un immaginario distopico, utopico e abbastanza massimizzato è dunque il tramite più efficace nel cinema di firma sudcoreana, una concezione ben diversa dallo scenario di altri grandi nomi occidentali che preferiscono la via di un neorealismo schietto, diretto e distaccato, con una regia perlopiù indifferente che lascia lo spazio alle immagini e si limita a una costruzione meno studiata, ma bensì più libera che dà paradossalmente al film un volto più vero.
In questo scenario spiccano le pellicole del britannico Ken Loach: esse rappresentano una new frontiere lavorativa precaria, tragica e possibile da raccontare solo senza orpelli.
Gli esempi più lampanti sono Io, Daniel Blake e il nuovissimo Sorry We Missed You; due pellicole uguali, registicamente parlando, con uno studio attento e mirato sulla situazione delle classi più povere della Gran Bretagna, raccontata grazie a semplici regole: camera per la maggior parte a mano, scenografia e luce reali, attori spesso poco noti, o presi dalla strada, e sceneggiatura povera che prediliga un linguaggio parlato (lo spoken english delle classi lavoratrici).
Il risultato è la produzione di film documentaristici e verosimilmente applicati a un contesto odierno che rendono i lavori di Loach estremamente tragici e compassionevoli. Non a caso le storie raccontate eliminano un contesto estremo fatto di omicidi o malattie psicologiche.
Si preferisce, invece, un racconto ordinario e non fuori dal comune: i protagonisti non sono particolarmente distinguibili per le loro caratteristiche, sono solo il punto su cui la camera ha voluto soffermarsi.
È in questo frangente che conosciamo una storia che racconta il dramma umano nella sua quotidianità più pura, e da questo punto di vista non è così strano notare una vaga somiglianza tra il disperato Ricky Turner (Krish Hitchen) in Sorry We Missed You e l’Antonio Ricci (Lamberto Maggiorani) di De Sica in Ladri di biciclette.
Ben inserito in questo panorama è anche un eccellente, insolito in questo listone, Smetto quando voglio. La trilogia italiana di Sydney Sibilia è, infatti, niente poco di meno che una imponente critica sociale, in questo caso concentrata sulla situazione lavorativa dei giovani in Italia. Una commedia delirante, narratrice di una Roma disperata e ubriaca – o meglio, drogata – in cui i fondi di ricerca universitaria sono pressoché inesistenti; uno scenario drastico che vuole, ancora una volta, spiegare i pericoli e le ingiustizie comuni lasciate in eredità da un sistema prettamente piramidale che, in questo caso, sono incarnati dalla società accademica fatta di professori ignoranti incapaci e dottorandi lasciati in miseria, costretti ad arrangiarsi con lavori di fortuna.
Balza fuori la malsana, ma unica, decisione di immergersi nell’oscuro mondo dell’illegalità, concetto che scrive la trama dei film: il protagonista, insieme al suo gruppo di studiosi, anch’essi delusi e costretti al lavoro precario, soverchiano lo stesso Stato che servono per realizzare i propri studi e il successo che si meritano; il risultato è un cane che si mangia la coda e ancora una volta un ennesimo fallimento di tentativo di ascesa ai piani alti.
Una storia che insomma vuole chiarire un punto molto chiaro e che unisce inevitabilmente tutti questi film: non è possibile affidarsi al sostegno perché inesistente, né tantomeno è possibile concepire un mondo diverso con una struttura gerarchica del genere.
Principi sostenuti anche da Hollywood, strettamente inserita in una realtà socioculturale fortemente liberista in cui, il sogno americano, è il fondamento della struttura comunitaria. Dimostrazione brillante è sicuramente Joker di Todd Phillips: un mix tra cinecomic, cinema autoriale e aspra critica sociale presa in prestito da Martin Scorsese, di cui Joker si fa eletto discendente con le citazioni a Taxi Driver e a Re per una notte.
Altro esempio è l’ambigua serie tv Shameless, omonimo remake statunitense della serie britannica creata da Paul Abbott: un’energica e cupa trama con al centro la famiglia disfunzionale Gallagher, nota al pubblico per la sua incredibile irriverenza nel mondo televisivo la quale, senza alcun freno – Shameless può essere tradotto in italiano come “svergognato” o “privo di pudore” – , racconta la faccia della medaglia nascosta del neoliberismo americano, l’incoerenza delle middle classes nei confronti dei disgraziati, precari e condannati a tale destino solo perché nati “in the ghetto”, dove l’assistenzialismo inesistente del governo emerge in tutta la sua complessa ingiustizia e il lavoro, spesso alimentatore dell’economia sommersa, è concepito come una tortura impossibile da poter assimilare.
Lo svilimento della carriera lavorativa è oramai una presa di posizione comune, una gabbia che intrappola i più indigenti e li riduce in una condizione disastrosa spesso ignorata dal resto della società.