Del: 29 Luglio 2020 Di: Roberta Gaggero Commenti: 0

Chiunque almeno una volta nella vita può dire di aver dovuto affrontare il sentimento della noia, uno tra i più ambigui e controversi che l’uomo possa provare. Spesso si tende a circoscrivere la noia alla mancanza di occupazioni, a un momento transitorio risolvibile facilmente con un film in tv o un’uscita al bar con gli amici. La noia è in realtà qualcosa di molto più profondo e per questo ha da sempre suscitato grande interesse nei pensatori più illustri, che hanno provato con ogni mezzo a darle una forma: viene trattata nel De Rerum Naturis di Lucrezio e diventa nucleo centrale della produzione di Leopardi, viene definita spleen da Baudelairemale di vivere da Montale

Ma come si può descrivere più precisamente questo stato d’animo così dibattuto?

Come abbiamo già detto sarebbe riduttivo limitare il tutto all’assenza di distrazioni, spesso infatti la noia si associa a un senso di tristezza e di incompletezza, chi ne soffre sprofonda in un sentimento di disagio con sé stessi e con gli altri, si sente immobile ed esterno rispetto a un tempo che continua a scorrere. 

Alberto Moravia, uno dei più importanti scrittori del XX secolo, ha dedicato a questa tematica esistenziale un intero romanzo intitolato proprio La noia. In quest’opera pubblicata nel 1960, a distanza di trent’anni dal suo primo capolavoro Gli indifferenti, Moravia torna a rappresentare la borghesia negli anni del grande sviluppo industriale. Al centro di questa società permeata di ricchezza e corruzione si colloca la vita del pittore trentacinquenne Dino, ricco borghese che si sente costretto in una vita che non gli appartiene e che per questo decide di lasciare la grande villa della madre nella Via Appia e di andare a vivere in un piccolo studio in via Margutta. Il possesso e la ricchezza illimitata è in realtà per lui un limite.

La vita di Dino, per come la descrive egli stesso, era un “continuo cambiare di posizione, come in un letto scomodo nel quale è impossibile dormire a lungo sullo stesso fianco”. Sin dal prologo Dino esplicita questo senso di malessere che egli definisce “noia”, svincolandola dall’accezione più nota del termine. 

L’incontro con la giovanissima Cecilia cambierà le carte in tavola e l’ossessione sfrenata per la ragazza farà rimpiangere a Dino quella noia che tanto lo aveva afflitto, spingendolo a compiere i più svariati tentativi per far uscire quella misteriosa donna dalla propria testa. 

La stessa Cecilia è l’incarnazione della noia, una noia differente, povera, inconsapevole: non possiede niente e non ha aspettative. 

La trama si sviluppa in una serie di dialoghi secchi e nitidi e di flussi di coscienza di un protagonista in prima persona sempre molto lucido. Ciò che colpisce di questo libro però non è tanto la vicenda in sé quanto la capacità dell’autore di esprimere in maniera così chiara concetti così complicati e di far immergere il lettore nelle stesso disagio tediante in cui Dino affoga ogni giorno. 

Attraverso le parole del protagonista, Moravia analizza in maniera clinica e secca questo sentire, sviscerandone ogni aspetto in maniera tecnica, elegante e precisa come prima pochi di lui erano riusciti a fare. Con l’utilizzo di metafore dichiarate rende perfettamente l’idea di ciò che difficilmente si riuscirebbe a spiegare altrimenti: “Per adoperare una metafora, la realtà, quando mi annoio, mi ha sempre fatto l’effetto sconcertante che fa una coperta troppo corta, ad un dormiente, in una notte d’inverno: la tira sui piedi e ha freddo al petto, la tira sul petto e ha freddo ai piedi; e così non riesce mai a prendere sonno veramente.” 

Poche righe più avanti racconta di come sin da bambino avvertisse questo disagio, a cui ancora non aveva trovato un nome, che lo costringeva ad alienarsi da persone e oggetti: “Mi avveniva, in quegli anni, di cessare improvvisamente di giocare e di restare ore intere, immobile, come attonito, sopraffatto in realtà dal malessere che mi ispirava quello che ho chiamato l’avvizzimento degli oggetti, ossia dall’oscura consapevolezza che tra me e le cose non ci fosse alcun rapporto.” Crescendo aumenta in lui la consapevolezza di questa noia che mai lo abbandona, fino a realizzare che il problema da cui scaturisce va ricercato non solo nel rapporto con gli altri ma soprattutto nel rapporto dell’io con se stesso

In maniera concisa ma efficace Moravia esprime un’immagine emblematica del romanzo e del significato di noia per come dovrebbe essere intesa e non per come viene invece comunemente avvertita: “Ora, come ho detto, l’aspetto principale della noia era l’impossibilità pratica di stare con me stesso, la sola persona al mondo, d’altra parte, della quale non potevo disfarmi in alcun modo.” 

Il gelido distacco del protagonista non si limita dunque al mondo circostante ma si riferisce in prima istanza al proprio vissuto, che il piccolo Dino prima e il Dino maturo poi non sente proprio. 

Paradossalmente, la profonda consapevolezza acquisita da Dino che dovrebbe spingerlo all’azione, lo porta al contrario all’inazione, alla paralisi totale: “Ma soprattutto soffrivo di una specie di paralisi di tutte le facoltà, per cui, muto, apatico e ottuso, mi pareva di essere murato vivo dentro me stesso, come dentro una prigione ermetica e soffocante.” La pigrizia dell’annoiato ha la meglio sulla forza per uscirne, si impone e non lascia spazio a tentativi di tirarsi su, e più l’annoiato è consapevole più la noia lo affligge: “Ciò che mi colpiva, soprattutto, era che non volevo fare assolutamente niente, pur desiderando ardentemente fare qualche cosa.” 

La prosa di Moravia è elegante e concisa, senza fronzoli esprime il necessario per permettere al lettore di entrare nei pensieri di Dino (personaggio tutt’altro che simpatico) e talvolta di identificarcisi. Un romanzo dunque che porta il lettore a riflettere su una tematica molto importante e che sul finale provoca molte domande accompagnate da un desiderio di sapere di più, da un senso  di insoddisfazione e di vuoto, ma d’altronde cosa altro ci si potrebbe aspettare da un romanzo intitolato La noia? Certo è però che, leggendo questo libro, non ci si può annoiare. 

Roberta Gaggero
Ligure trapiantata a Milano. Dimentico sempre la luce accesa, puccio i biscotti nella spremuta d’arancia e non so scrivere le bio. Mentre cerco di capire chi sono bevo birra e parlo di poesia.

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