Del: 31 Agosto 2020 Di: Beatrice Balbinot Commenti: 0

Non ce n’è Coviddi” è lo slogan dell’estate 2020, ripetuto da giovani e non come una cantilena, tra chi lo dice solo per scherzare e chi invece lo pensa davvero. Con l’inizio della bella stagione e grazie al lockdown i casi di coronavirus in Italia sembravano essersi decisi a calare. E insieme a loro è calata anche l’attenzione.

Cosa ci si poteva aspettare d’altronde? Dopo mesi chiusi nelle proprie case guardando all’atto della spesa come il più alto momento di socialità, tutti hanno bisogno di lasciarsi andare.

La voglia di divertimento e il bisogno di normalità in molti casi hanno vinto a mani basse contro la paura del virus.

Il risultato sembra essere un’euforia generale, che si traduce in mascherine non indossate e comportamenti non sempre del tutto responsabili. Perché tanto “non ce n’è Coviddi”. Il problema nasce quando si scopre che il Covid-19 invece circola ancora e continua a essere molto pericoloso. La curva dei contagi nel nostro paese è tornata a salire pericolosamente, palesando la possibilità di un nuovo lockdown.

Tre sono le categorie di contagi che si registrano in Italia: la prima riguarda quelle persone che tornano da una vacanza all’estero; con la seconda si parla di coloro che vivono in altri Paesi e vengono in Italia per un soggiorno portando con loro il virus; infine nella terza categoria rientrano gli italiani che rimangono entro i confini, ma cedono al fascino di un divertimento dimentico del pericolo del Covid.

Come spesso accade in Italia, l’estero sembra essere il grande pericolo, la bestia nera del Bel Paese. Per coloro che decidono di passare le vacanze in Croazia, Spagna, Grecia e Malta lo Stato italiano ha già da tempo preparato un caloroso ben tornati a base di tampone entro le 48 ore dal ritorno. Inoltre il Governo ha stabilito il divieto di transito o ingresso in Italia per le persone che nei 14 giorni precedenti hanno soggiornato in paesi come l’Armenia, il Brasile, la Serbia, la Colombia e altri. Trattamento simile per i cittadini di rientro dalla Romania o dalla Bulgaria: per loro sono stati stabiliti 14 giorni i quarantena obbligatoria e tampone naso-faringeo.

L’attenzione verso l’estero è, giustamente, alle stelle. Sarebbe impossibile non riconoscere che alcuni Paesi si trovano ancora nella morsa del Covid-19 ed è importante non sottovalutare il rischio di contagi d’importazione.

Ciò che invece il Governo e gli italiani stanno sottovalutando è la circolazione interna del virus.

La grande attenzione che si rivolge verso la minaccia dei casi provenienti da stati stranieri si riduce a un ammontare di norme di dubbia efficacia entro i confini del nostro Paese. Si fanno tamponi a chi torna dall’estero, ma si chiude un occhio se gli stabilimenti balneari dispongono gli ombrelloni a meno di un metro di distanza; nelle università non si può ancora affrontare una didattica completamente in presenza, ma fino a un paio di settimane fa molte discoteche in tutta Italia erano aperte. Le contraddizioni sono evidenti.

Il 16 agosto l’Esecutivo ha finalmente preso la decisione di chiudere le discoteche e di imporre obblighi più stringenti nei luoghi della movida. Purtroppo però il detto “meglio tardi che mai” non è sempre valido. La maggioranza dei casi di coronavirus registrati tra gli italiani che rimangono nel Paese per le vacanze estive sono riconducibili proprio ai comportamenti sociali vivaci della movida.

Emblematico il caso della Sardegna, che da zona franca si è trasformata in terreno fertile per il Covid a seguito di serate all’insegna del divertimento e rigorosamente sprezzanti del distanziamento sociale. Non c’è niente di shockante in un aumento dei contagi quando questi comportamenti sono stati permessi fino a pochissimo tempo fa.

Con il passare del tempo e la diminuzione della curva dei contagi, gli italiani si sono un po’ inorgogliti, hanno cominciato a considerare il loro Stato come una terra virtuosa dove il virus era stato se non sconfitto almeno piegato al controllo. Davanti a uno scenario di questo tipo, il rischio di fare brutta figura spaventa parecchio.

Ed è così che nascono quei giudizi molto spesso impietosi contro coloro che sono caduti nella tentazione della movida e sono tornati contagiati, rei di aver tradito l’orgoglio nazionale. Impossibile negare che i comportamenti scorretti partono dai singoli e che una maggiore attenzione nella comunità, soprattutto dei più giovani, avrebbe sicuramente evitato certe situazioni a rischio.

Ma c’è anche un rovescio della medaglia, una riflessione da considerare che molto spesso viene ignorata: che cosa vuol dire veramente tornare a casa dalle ferie con il Covid? Non bisogna per forza addentrarsi nei casi limite: tralasciamo dunque quelle storie tragiche che parlano di terapie intensive e vite spezzate dal virus. Per rispondere al quesito ci basti considera quelle vicende dove, fortunatamente, tutto si è risolto con un paio di giorni a letto e una lunga quarantena. L’esperienza del Covid-19 è sempre una sfida per chi è risultato positivo al tampone.

Il sintomo peggiore nei casi più lievi è l’isolamento. Non è solo un isolamento fisico, ma anche e soprattutto morale.

La prima sensazione che investe questi soggetti è il senso di colpa: tornare positivi dopo una vacanza significa, ovviamente, esporre i propri cari al rischio del contagio.

Poi arriva la vergogna per essersi ammalati. In questa seconda fase della pandemia, dove il numero dei contagi rimane comunque contenuto, gli ospedali non sono più prossimi al collasso e la circolazione del virus sembra essere ancora sotto controllo, la sensazione comune relativa al coronavirus è un po’ quella di una malattia legata alla disattenzione: se te la prendi significa che non hai seguito le regole. Ma quali regole? I locali fino a due settimane fa erano aperti e potevano essere frequentati, sempre nel rispetto di alcune norme che si proponevano di limitare i rischi.

In molti casi di contagio dunque le regole vigenti sono state rispettate, ma non sono bastate. Chi risulta positivo dopo una serata in discoteca subisce un vero e proprio processo penale, dove la comunità gioca il ruolo del giudice senza pietà.

Eppure non c’è lo stesso biasimo per chi si è ammalato dopo essere stato al ristorante nella propria città, o per chi è è stato contagiato durante una sosta in una spiaggia affollata. Perché, dunque, aver frequentato dei locali che erano regolarmente aperti e nel pieno rispetto delle norme imposte dovrebbe essere un chiaro segno di totale mancanza di raziocinio?

Il fatto è che i luoghi della movida non dovevano essere riaperti in un Paese ancora in bilico tra la fine del tunnel della pandemia e il baratro di un nuovo lockdown.

Quel giudice impietoso che è la società dovrebbe quindi revisionare l’attribuzione della colpa dei contagi, almeno quanto basta per salvare dal patibolo tutti coloro che si sono ammalati pur non facendo nulla di illecito e attribuendo la giusta fetta di responsabilità a chi invece ha permesso che certi locali fossero attivi, pur non essendoci le condizioni per garantire la sicurezza degli avventori.

In generale la sensazione è quella di un giudizio pressante da parte della comunità, un giudizio che passa dai social, attraversa i giornali e arriva sulle bocche di tutti. Ed è un giudizio doloroso per chi si trova ad affrontare il virus, che trascina con sé una fastidiosa sensazione di solitudine.

Essere tacciati di completa irresponsabilità per aver trascorso una vacanza nell’esercizio della legittima libertà personale è una valutazione frettolosa che segnala una preoccupante mancanza di empatia.

Tutti dicevano che il coronavirus ci avrebbe insegnato qualcosa, che ci avrebbe mostrato cosa vuol dire avere cura dell’altro e rispettarlo nella sua condizione di difficoltà. Invece non è cambiato niente, siamo sempre punto e a capo.

Beatrice Balbinot
Mi chiamo Beatrice, ma preferisco Bea. Amo scrivere, dire la mia, avere ragione e mangiare tanti macarons.

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