Il 69,96% degli italiani si dichiara favorevole alla riforma costituzionale. Pareggio alle regionali: in Veneto, Liguria e Marche vince la destra, la sinistra conserva Puglia, Toscana e Campania. Affluenza al 53,84% per il referendum confermativo.
Il referendum
Si è conclusa ieri pomeriggio una delle tornate elettorali più singolari di sempre, in cui i cittadini sono stati chiamati ad esercitare il loro diritto di voto rispettando il distanziamento sociale e indossando presidi di protezione individuale, le ormai famose “mascherine”. Nel rispetto delle numerose misure anti covid-19, gli italiani hanno espresso la loro preferenza su un tema che ha animato il dibattito politico delle ultime settimane: la riduzione del numero di parlamentari.
Gli ultimi sondaggi, diffusi prima che calasse il silenzio elettorale (ossia prima del cinque settembre) davano il Sì al 71%, un vantaggio talmente ampio da non lasciare spazio a dubbi circa l’esito finale della consultazione, che infatti si è conclusa con una schiacciante sconfitta del fronte del No. Che questo risultato sia dovuto alla cosiddetta “ondata di antipolitica” o piuttosto alla speranza che un parlamento più snello sia più efficiente, il risultato finale non cambia: a partire dalla promulgazione della legge, gli articoli 56, 57 e 59 della nostra Costituzione verranno modificati, dunque nella prossima legislatura avremo 200 senatori e 400 deputati (in tutto si tratta di 345 parlamentari in meno).
Non si può dire, tuttavia, che le mobilitazioni e le discussioni delle ultime settimane siano state del tutto inutili: le argomentazioni presentate dai sostenitori del No, i quali contestavano la mancanza di correttivi e il danno alla rappresentanza, oltre a sottolineare l’esiguità del risparmio economico, hanno convinto il 30,1% degli italiani, ossia circa il 15% in più rispetto al dato risalente al 26 giugno.
A tirare un sospiro di sollievo è stato innanzitutto il Movimento Cinque Stelle: l’immagine dell’attuale ministro degli Esteri che strappa uno striscione raffigurante delle poltrone mentre sorride e parla di «riforma storica» (espressione, peraltro, ripetuta ieri pomeriggio in un post sui social) è rimasta impressa nell’opinione pubblica; una sconfitta su quello che da sempre è un cavallo di battaglia dei grillini avrebbe indebolito ancora di più una forza politica che, com’è noto, a livello di consensi non se la passa granché bene.
L’affluenza
C’è un dato, in particolare, che merita di essere sottolineato, ed è quello dell’affluenza: ben 54 (53,84) italiani su cento si sono recati alle urne, nonostante si pensasse che il timore del contagio potesse scoraggiare la partecipazione.
Evidentemente, a prevalere sulla paura è stata la voglia di far sentire la propria voce su una riforma che, ricordiamolo, è stata proposta per la prima volta nel lontano 1983 dalla commissione Bozzi.
Anche le rinunce di presidenti e scrutatori – in numero di gran lunga superiore rispetto a quello degli anni scorsi – sono state gestite tempestivamente, ricorrendo all’intervento della Protezione Civile e dei dipendenti comunali.
Regionali
Agli italiani residenti in 7 regioni (Valle d’Aosta, Veneto, Liguria, Toscana, Marche, Puglia e Campania) sono state consegnate due schede elettorali: quella per il referendum e quella per il rinnovo del consiglio regionale. Solo nel caso della regione a statuto speciale non era prevista l’elezione diretta del governatore, che verrà scelto dal consiglio stesso.
Nonostante gli scrutini siano appena terminati, distinguere tra vincitori e vinti è stato possibile già ieri pomeriggio. In Veneto, Liguria e Campania si è verificata la prevedibile riconferma dei presidenti uscenti: Luca Zaia (Lega), complice l’ottima gestione dell’emergenza Covid, ha incassato la bellezza di 1.883.267 voti (76,8%), Vincenzo de Luca (PD), forte della popolarità guadagnata con il suo linguaggio colorito durante il lockdown, ha raggiunto il 69,5% delle preferenze, mentre Giovanni Toti (FI) si è conquistato il secondo mandato con il 56,1% dei voti, vincendo nonostante l’accordo PD-Movimento Cinque Stelle.
Nell’unica regione in cui la coalizione di governo si è presentata unita con il candidato Ferruccio Sansa (38,9%), dunque, la vittoria è andata al centrodestra. In Puglia e in Toscana, quella che fino all’ultimo si pensava sarebbe stata una battaglia all’ultimo voto si è trasformata in una vittoria dei candidati di centrosinistra: Michele Emiliano è stato riconfermato con il 46,8% dei voti, mentre Eugenio Giani ha vinto con il 48,6% dei voti. Deludenti, dunque, i risultati del candidato di Fratelli d’Italia Raffaele Fitto (38,9%) e quello della leghista Susanna Ceccardi (40,5%).
Se è vero che la presunta disfatta del centrosinistra non si è verificata (in molti parlavano di cinque a uno o addirittura di sei a zero a favore della destra, tralasciando la situazione particolare della Valle d’Aosta), va detto anche che, per i dem, i festeggiamenti lasciano in bocca un retrogusto amaro: nelle Marche, i 361.116 (49%) voti incassati da Francesco Acquaroli (FdI) pongono fine allo storico governo di centrosinistra (era dalla riforma del 1999 che i marchigiani non consegnavano la loro regione a un candidato di centrodestra).
Sono in molti a far notare come, se in questa regione PD e M5S avessero presentato un candidato unico, come avevano caldeggiato gli iscritti al Movimento votando su Rousseau, probabilmente la roccaforte della sinistra non sarebbe stata espugnata.
Con questi dati in mano occorre fare una breve riflessione in merito alla brutta performance della Lega, che anche questa volta, a otto mesi dalla sconfitta di Lucia Borgonzoni in Emilia-Romagna, non riesce a conquistare una regione storicamente rossa. Premettendo che ogni territorio è a sé, va sottolineato che la stessa impresa è stata portata a termine con successo dalla Meloni nelle Marche.
A questo punto viene da chiedersi se Salvini debba temere di più l’avanzata di Fratelli d’Italia o l’exploit di Zaia, il presidente più votato di sempre, che subito dopo la bella notizia ha sottolineato come uno dei suoi obiettivi principali sia quello di «portare a casa l’autonomia». Impossibile non accorgersi di due “particolari”: che questa visione è opposta rispetto a quella su cui Salvini punta dal 4 marzo 2018, e che al sud il Carroccio sta subendo delle brusche battute d’arresto. Rimane da capire se il partito monolitico avrà la forza di aprire un dibattito interno che metta in discussione la leadership del suo segretario.