«Lei come è diventata comunista?» «Scegliendo di esserlo». Così Rossana Rossanda sintetizza i suoi esordi nel mondo della politica, un mondo che con lei fu impietoso, ma che sempre l’attrasse in quel gioco di aspettative infervorate che molto spesso prelude a una delusione. Il comunismo fu per Rossana Rossanda un’epifania graduale, scoperta passo dopo passo attraverso la Resistenza, gli insegnamenti del suo stimato maestro Antonio Banfi e letture che strizzavano l’occhio all’esperienza dell’Unione Sovietica. Rossanda abbracciò la scoperta del comunismo con un ardore intelligente, sempre critico, costantemente orientato al miglioramento di un’Italia – di un mondo – che non la soddisfaceva.
La ragazza del secolo scorso nacque nel 1924 a Pola, terra contesa, provincia italiana poi annessa alla Croazia jugoslava nel ’47. Più affezionata alla sua identità politica che a quella nazionale, si spostò prima a Venezia e poi a Milano, dove iniziò a frequentare il liceo classico Alessandro Manzoni. Successivamente, dopo aver concluso gli studi classici con un anno di anticipo, si iscrisse all’Università Statale, dove si laureò in filosofia. Nel 1956 entrò nella segreteria del PCI, Partito Comunista Italiano, per poi approdare alla camera dei deputati nel ’63: comincia così il suo lungo, ma instancabile, travaglio politico, caratterizzato da una speranza un po’ disillusa, ma caparbia, dura a morire.
Rossana Rossanda ebbe un pensiero eretico, dirompente, che poco si addiceva alle briglie rigide di un partito.
E infatti poco ci volle perché emergessero i primi screzi: l’adesione alla linea movimentista di Pietro Ingrao, la profonda critica all’atteggiamento stalinista, il disaccordo sull’occupazione della Cecoslovacchia adombravano tutte le differenze tra la filosofia del partito e il pensiero rivoluzionario di quella donna incapace di arrendersi di fronte ai dissensi. Nel 1968 contribuisce, insieme ai colleghi Luigi Pintor, Lucio Magri e Valentino Parlato, alla nascita del giornale il Manifesto, da cui successivamente prenderà forma anche una distinta corrente politica in seno al PCI.
Quando i Paesi del Patto di Varsavia si accordarono per l’occupazione della Cecoslovacchia, la divergenza dei quattro fondatori del Manifesto divenne palese ed insostenibile. Nel 1969 l’espulsione dal PCI si abbatté con la stessa violenza di un tradimento nella coscienza politica di Rossanda, Magri, Natoli e Pintor, ma fu anche l’occasione per tuffarsi in una nuova occasione di cambiamento. Infatti da lì a poco la corrente del Manifesto si istituì a partito autonomo e si presentò alle elezio-ni del 1972 con la fervida volontà di ritagliarsi uno spazio nel firmamento politico italiano.
Il fallimento, però, fu scottante: il Manifesto ottenne soltanto lo 0,8% dei voti e decise dunque di unirsi al Partito di Unità Proletaria, per poi essere inglobato nuovamente nel PCI nel 1984, passando per la formazione del PdUP Per il Comunismo nel ’74. Scorrendo la vita di Rossana Rossanda, brillantemente raccolta nelle pagine autobiografiche di La ragazza del secolo scorso, emerge un pensiero solitario, coerentemente perdente dall’inizio alla fine, come spesso accade alle posizioni di sinistra. Amante della cultura e curiosa indagatrice del mondo che la circondava, Rossanda non ha mai realmente perso d’occhio gli ambienti di quella politica ottusa che tanto l’aveva delusa, senza mai rinnegare la speranza che, fino alla fine, l’ha tenuta legata alla visione di un mondo diverso.
Scrisse in una lettera inviata ad Enrico Berlinguer il 23 febbraio 1983: «Il Manifesto avrà commesso degli errori, ma almeno uno no: verso il PCI non ha avuto risentimenti, ma sempre qualche tenace speranza. E anche le punte amare, se sono talvolta venute, sono venute dal continuare a sperare di più». Nelle parole di Rossanda si trova la sintesi della sua tormentata esperienza politica: un pendolo instancabile, che ogni qualvolta propendesse dalla parte della delusione, riusciva sempre a ridirigere la sua corsa verso la speranza.
Era la speranza di una rivoluzione per un mondo profondamente imperfetto, ma che la ragazza del secolo scorso ha amato per tutta la sua vita.
«E’ stata la bellezza del mondo e l’amore per la cultura a salvarmi dalla delusione del fallimento politico», disse Rossanda in un’intervista rilasciata nel 2015, quando, ormai alle prese con una vecchiaia fastidiosa che aveva eroso l’ardore di un tempo, ripercorse la sua carriera di donna politica e intellettuale di sinistra. I dolori di una vita intera, dalla separazione con il primo marito Rodolfo Banfi alla morte del suo compagno K.S. Karol, al suicidio del suo amico e collega Lucio Magri, si sono riversati indelebilmente nello sguardo e nel corpo di una donna che ha segnato la storia politica del secolo scorso e che il 20 settembre, all’età di 96 anni, ha detto addio alle sue amate bellezze del mondo.
«Mi dispiacerebbe morire solo per i libri che non avrò letto e per i posti che non avrò visitato», aveva detto Rossanda nel 2015. Oggi a noi piace ricordarla così: come il volto della coerenza nella speranza e nella delusione, come la combattente contraria alla corrente, come l’esploratrice insaziabile di conoscenza, bellezza e cambiamento che si è fatta conoscere attraverso l’esperienza esemplare di una vita all’insegna di un credo politico personale, incompreso ed inimitabile.