Agli inizi di settembre, in Nigeria, una coppia d’innamorati ha scelto di darsi la morte. Questo perché i genitori avevano negato loro la possibilità di sposarsi.
L’articolo della BBC che mette in luce l’argomento, uscito il 13 settembre, si apre con un paragone suggestivo, quello tra i due giovani nigeriani e i personaggi shakespeariani Romeo e Giulietta. In effetti, in entrambi i casi, anche se con differenze, abbiamo l’opposizione familiare al matrimonio, all’amore, e il finale tragico.
Però c’è anche un’importante differenza. Nell’opera di Shakespeare, è l’odio reciproco e ancestrale tra le due grandi famiglie veronesi degli innamorati, Capuleti e Montecchi, a impedire l’unione. In Nigeria, l’ostacolo è derivato da una situazione assai diversa (e probabilmente per noi assai più difficile da comprendere).
La Nigeria non solo è il paese più popoloso del continente Africano con i suoi 123 milioni di abitanti, ma racchiusi nei suoi confini abitano più di 250 gruppi etnici, con le loro tradizioni e culture. Le etnie predominanti sono Hausa e Fulani (29%) e Yoruba (21%). Le famiglie dei due giovani che volevano sposarsi sono invece di etnia Igbo, un gruppo comunque importante che corrisponde al 18% della popolazione nigeriana e vanta una propria lingua parlata ufficialmente nella Nigeria sud-orientale dove gli Igbo sono stanziati.
Dunque, non si è trattato di odio tra etnie diverse. I genitori hanno impedito ai figli di sposarsi dopo aver scoperto che uno dei due era discendente di schiavi.
Questo divieto non è derivato, si noti, da una particolare scelta dei genitori bensì da un atteggiamento culturale diffuso presso gli Igbo. Nell’ambito di tale etnia, i discendenti di schiavi portano su di sé come uno stigma, un marchio invisibile che impedisce loro di mescolarsi ai nati liberi o di parlare durante le riunioni pubbliche o di beneficiare di forme di rispetto: ad esempio, a Oguta, importante città nigeriana capoluogo dello Stato di Imo, i discendenti di schiavi non possono accettare titoli tradizionali, come l’Ogbuagu, conferito agli uomini più esperti e validi della comunità. Ovviamente in tale contesto matrimoni “misti” tendono ad apparire inaccettabili. Ma perché essere discendenti di schiavi è uno stigma così pesante?
Per capire, bisogna considerare la storia. Per cominciare non si deve cadere nell’errore di pensare che la schiavitù sia stata portata in Nigeria dagli europei. La Nigeria ha subito, certo, e pesantemente il fenomeno della tratta transoceanica. Ma la schiavitù era anche presente come tratto delle società locali e in particolare tra gli Igbo. Quando la Nigeria, nel 1901, divenne protettorato britannico, gli Igbo erano divisi in tre caste principali: i diala, gli ohu e gli osu.
I diala erano i liberi. Gli ohu invece erano gli schiavi, divenuti tali perché prigionieri di guerra o per il mancato pagamento di debiti o per crimini commessi, o nati tali perché figli di schiavi. I diala a volte li vendevano a mercanti o li sacrificavano in occasione di cerimonie religiose. Che fossero dei veri e propri schiavi è testimoniato anche dal fatto che spesso venivano sepolti vivi alla morte del padrone.
Gli osu, infine, erano schiavi di proprietà delle divinità tradizionali. Vivevano per lo più separati dalla comunità e se un diala voleva avere ad esempio un figlio maschio o evitare il cattivo raccolto, poteva offrire uno di questi schiavi in sacrificio. Come ha scritto Chinua Achebe nel suo famoso romanzo Things Fall Apart: «[Un osu] era una persona dedicata a un dio, una cosa messa a parte, un tabù per sempre e i suoi figli dopo di lui».
In Nigeria, la schiavitù fu abolita all’inizio del XX secolo. Ma dagli inglesi, dall’esterno dunque, non da un’evoluzione della società. Forse anche per questo, ma senza dubbio le ragioni sono molte, i discendenti di schiavi portano ancor oggi su di sé il pesante passato dei loro antenati. Come si osserva nell’articolo apparso sul New Yorker nel 2019 (The descendants of slaves in Nigeria fight for equality), «mentre l’abolizione [della schiavitù] nel mondo occidentale è stata preceduta da secoli di attivismo che lentamente (e imperfettamente) hanno cambiato gli atteggiamenti culturali, l’abolizione nel sud-est della Nigeria è stata imposta dalla volontà coloniale». Quindi, ancor più di quanto avvenuto in altri contesti, l’abolizione è rimasta per molti versi un dato formale.
Non dunque motivi razziali, ma un antico e mai davvero superato pregiudizio e il desiderio di mantenere “puro” il lignaggio sono all’origine del divieto di matrimonio.
Nel 1956, è stato approvata in Nigeria una legge che vieta il sistema delle caste ma, come ha affermato Anthony Obinna, arcivescovo cattolico nigeriano morto nel 1995: «I divieti legali non sono sufficienti per abolire certe usanze tradizionali. C’è bisogno di maggiore impegno dal basso».