Del: 21 Settembre 2020 Di: Contributi Commenti: 1
Non chiamateli accordi di pace

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«Una nuova alba di pace è in arrivo in Medio Oriente» con queste parole Donald Trump ha accolto martedì alla Casa Bianca la sigla dei cosiddetti “Accordi di Abramo” tra i ministri degli esteri dei due paesi arabi, Emirati Arabi Uniti e Bahrein, e il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu.

La recente intesa diplomatica raggiunta sotto la mediazione degli Stati Uniti però non fa altro che rinforzare la repressione delle lotte per la democrazia in Medio Oriente.

Quello che viene definito dai protagonisti come un passo verso la stabilità, a conti fatti ha più l’aspetto di un’intesa militare e finanziaria tra regimi noti alla comunità internazionale per la dura repressione delle ribellioni interne e per le ripetute violazioni dei diritti umani.

Un accordo che tecnicamente non può nemmeno essere definito “di pace” poiché alcuna guerra era in corso tra i paesi. In particolare le relazioni tra Bahrein e Israele nella storia non sono mai state conflittuali, bensì caratterizzate da proficui rapporti diplomatici e commerciali.

Dietro ai volti sorridenti dei quattro leader alla Casa Bianca si nascondono interessi geopolitici ben più ampi della semplice pax americana pubblicizzata nella stampa occidentale. In primis quelli degli Stati Uniti di mantenere una solida influenza in Medio Oriente, ampliando il blocco di alleati in chiave anti-iraniana e rafforzando i legami con Israele.

Una mossa importante per Donald Trump – consapevole del peso dell’elettorato di origine ebrea negli States – in vista delle elezioni presidenziali di novembre.

Dall’altra parte ringraziano anche Emirati Arabi e Bahrein che si garantiscono armi ad alta tecnologia e importanti capitali da investire nella dura repressione che quotidianamente colpisce i dissidenti e le forze democratiche che minacciano i paesi arabi.

La monarchia sunnita di Al-Khalifa in Bahrein è infatti una delle più feroci del Medio Oriente. Nel 2011 represse nel sangue i venti di rivolta della Primavera Araba che chiedevano riforme e democrazia. Sostenuta da altri regimi autoritari del Golfo Persico, la famiglia al potere del Bahrein dichiarò immediatamente la legge marziale e autorizzò 1500 soldati dall’Arabia Saudita e dagli Emirati Arabi Uniti a entrare nel paese per reprimere brutalmente le proteste.

Altro fronte di collaborazione è stata la guerra in Yemen, dove il Bahrein ha combattuto fino al 2015 a fianco sempre di Emirati Arabi Uniti e Arabia Saudita, sganciando più di 20 mila bombe aeree e uccidendo 17.500 civili (secondo quanto riportato da Yemen Data Project).

Anche gli Emirati Arabi dello sceicco Khalifa bin Zayed Al Nahya, come si evince dal report annuale di Amnesty International, si sono resi responsabili di gravi violazioni dei diritti umani quali «arresti arbitrari, episodi di tortura e sparizione forzate che hanno coinvolto anche cittadini stranieri. Sono state imposte restrizioni alla libertà di espressione mediante l’arresto di coloro che esprimevano opinioni critiche verso le politiche o i funzionari dello stato, i quali sono stati sottoposti a condizioni spaventose».

Gli accordi siglati a Washington hanno dunque come effetto quello di isolare sempre di più il sogno di indipendenza della Palestina, gradualmente abbandonata dai paesi arabi e dalla comunità internazionale, a vantaggio di Israele.

Interrogato sull’argomento, Trump ha dichiarato di voler coinvolgere al “tavolo della pace” anche i palestinesi ma di essere pronto ad agire di conseguenza in caso di loro rifiuto.

Frasi naturalmente di circostanza, che appaiono irricevibili da chi nel 2017 dichiarava la città contesa di Gerusalemme come capitale legittima di Israele, non menzionando la controparte palestinese. Di fatti non sono mancate le immediate reazioni da parte di Gaza, con lanci nella notte di 13 razzi verso Tel Aviv.

Il quadro politico del Medio Oriente non lascia presagire alcun risvolto positivo per la Palestina e la democrazia, bensì ulteriori rancori e violenze sono destinati a rinnovarsi in una regione che sembra non conoscere pace. Una parola più volte utilizzata in questi anni dalla comunità internazionale ma che è sempre rimasta confinata all’interno di illusori ed effimeri accordi mediatici.

Contributo di Diego Megale.

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