
Appare evidente che il ruolo scelto dal Partito democratico, dal suo gruppo dirigente, nell’attuale fase politica sia quello della forza di conservazione. Questa posizione si declina continuamente in una passività incolore e inodore che il Pd ostenta nel dibattito politico. Un esempio. Nel novembre scorso il segretario Nicola Zingaretti assicurò a gran voce la necessità di approvare quanto prima una legge sullo ius soli, dipingendola come la cartina tornasole della fedeltà della coalizione di governo ai patti stipulati e alla sua collocazione politica: ma dopo mesi non c’è traccia della concessione della cittadinanza a tutti i nati in Italia. È singolare poi che la principale forza della sinistra brandisca un provvedimento legato all’immigrazione, per quanto giusto, come il vero punto di forza del suo programma.
La scelta di sostenere il governo Conte, maturata la scorsa estate contro la volontà di Zingaretti e dei suoi sostenitori, ha appiattito il Pd sul Movimento 5 Stelle. Nonostante i grillini, guidati dall’opaco Vito Crimi, proseguano senza sosta l’emorragia di voti, è il Pd a scontare il prezzo più caro dal punto di vista politico. La gestione dell’emergenza pandemica ha accentrato ulteriormente nelle mani del premier Conte, di provenienza grillina e, forse, desideroso di creare un suo movimento politico, le redini dell’azione di governo. Solamente la partita economica, per quanto centrale, è rimasta a gestione Pd e si è giocata sull’asse Gentiloni-Gualtieri. Ma l’iniziativa del governo resta comunque bloccata dalla contrarietà ideologica dei grillini all’utilizzo del Mes.
La debolezza espressa da Zingaretti è emblematica. Eletto nel marzo 2019 sull’onda del desiderio di rifondazione del Partito, dopo gli anni di Renzi, aveva sperato di avere più tempo, dall’opposizione, per costruire un’alternativa alla destra. Essere catapultato al governo, con la mannaia del trionfo di Salvini nelle urne sospesa sopra la testa, lo costringe a mercanteggiare giorno per giorno la convivenza con i Cinque Stelle, sulle singole proposte e sui più piccoli provvedimenti.
Un tale schema avrebbe senso solamente nell’ottica della creazione di un nuovo centrosinistra basato sull’accordo Pd-Cinque Stelle, del quale, forse, solo il premier Conte potrebbe essere il leader. Ma le elezioni regionali del 19 e 20 settembre hanno dimostrato l’opposto: solo in Liguria Pd e Cinque Stelle si presentano uniti, scontando comunque la defezione di Italia Viva. E sembrano destinati a perdere contro il governatore uscente Giovanni Toti. Nelle altre realtà locali i candidati grillini (Toscana, Puglia, Marche, Veneto, Campania), o quelli centristi (in Puglia renziani, Azione di Calenda e Più Europa hanno un candidato indipendente) insidiano il Partito democratico.
Allora qual è la strategia? Il Partito democratico può davvero accontentarsi di vivacchiare fino al gennaio 2022, quando si eleggerà il successore di Mattarella al Quirinale?
Da un certo punto di vista il comportamento del centrodestra sembra favorire questo schema: Salvini non sembra così deciso a dare la spallata al governo per prendere il posto di Conte. Ma se il voto di domenica si rivelasse per la maggioranza una disastrosa sconfitta, il premier e il Pd non potrebbero far finta di nulla.
Il Pd ha abbracciato una strategia remissiva, senza proposte o prospettive, con l’unica speranza del progressivo assorbimento elettorale dei Cinque stelle. Questa logica conservativa, finalizzata alla stabilità ad ogni costo, ha trovato la sua sublimazione nella vicenda della riforma costituzionale, che gli elettori sono chiamati a confermare questo fine settimana. Il Pd in parlamento aveva ripetutamente votato contro la proposta grillina; ma una volta stretto l’accordo per il governo ha ceduto su tutta la linea, prima fingendo che nulla fosse avvenuto, poi tergiversando ignobilmente (la linea ufficiale è stata decisa solo il 7 settembre durante una Direzione), infine annunciando il voto favorevole in ossequio alla propria natura riformista. Molti esponenti del Pd hanno ricordato che il taglio dei parlamentari è una battaglia storica della sinistra. Ma i modi e i tempi di questa riforma, la retorica anti-casta rilanciata ancora oggi dai grillini, rappresentano un colpo al cuore alla battaglia antipopulista che il Pd ha propugnato negli ultimi dieci anni. Partito di governo e stabilità, ma pronto a indebolire il parlamentarismo, anche simbolicamente, pur di restare al governo.
Non bisogna nascondere che questa deriva conservativa, presentata agli elettori come senso di responsabilità, ha radici lontane: il sostegno nel 2011 al governo Monti, che evitò le elezioni che Bersani avrebbe stravinto; la grande coalizione con Berlusconi nel 2013, guidata da Letta; il governo Conte l’anno scorso, per impedire alla Lega la vittoria elettorale. Ma il progressismo, nella sua concezione più nobile, non può mai tradursi in immobilismo, soprattutto se finalizzato alla permanenza al potere e a evitare che la destra formi una maggioranza. La continua retorica, rispolverata da ultimo anche in Toscana, per cui il Pd rappresenti l’argine al fascismo che risorge, al salvinismo o ieri al berlusconismo, ha finito per logorare lo stesso Partito democratico.
Legare la propria sopravvivenza politica, di questo si parla, alle sorti di un leader avversario, può pagare nell’immediato ma essere disastroso a lungo termine.
L’elezione a leader dei laburisti inglesi di Keir Starmer, un politico tutto sommato affine a Zingaretti, dopo la divisiva e disastrosa guida di Corbyn, ha rivitalizzato il partito. Il facile bersaglio del pittoresco primo ministro conservatore Johnson non ha spinto i laburisti a demonizzare il governo, predicendo disastri e tragedie, ma ha portato Starmer a un’opposizione puntuale e concreta, che ha riscosso notevole successo.
Se le regionali saranno un fallimento, in ogni caso, qualche ripensamento il Pd dovrà farlo. Sembra però che la prospettiva di mantenere i posti di governo sia destinata a prevalere sulla visione di lungo termine. Ancora una volta.