Questa rubrica racconta la campagna elettorale americana in vista del voto del 3 novembre.
Terminata l’estate si torna ad esaminare nel dettaglio la campagna elettorale che il prossimo 3 novembre deciderà il nuovo presidente degli Stati Uniti. Joe Biden si appresta ora ufficialmente a “dar battaglia” contro Donald Trump.
Le convention
Le primarie per decidere il candidato democratico per la Casa Bianca erano già finite da molto tempo, ma come da tradizione è solo con la convention che è stata ufficialmente assegnata a Joe Biden l’investitura ufficiale dal Partito Democratico, che ha quindi scelto lui per andare a sfidare a novembre il presidente uscente, il repubblicano Donald Trump.
Iniziamo dalla Convention. Quest’anno molto particolare ha consegnato al mondo giornalistico ed all’elettorato statunitense qualcosa che non si era mai visto prima, un evento per certi versi molto riuscito e per altri molto meno, le convention telematiche, condotte quasi totalmente senza pubblico e distribuite sui principali canali televisivi. Era un esperimento, ma un esperimento che in qualche modo ha avuto il suo impatto. È stato un buon successo soprattutto per il Partito Democratico, che ha optato per una Convention totalmente sullo schermo e che ha avuto il merito di presentare una faccia molto poco “pubblica” di Joe Biden ma molto sentimentale, quasi romantica, accompagnata dalla carica e dall’energia di colei che è ora ufficialmente la candidata alla vicepresidenza Kamala Harris. È stata una scelta difficile quella di Harris, che si è protratta per mesi ma che alla fine è andata incontro ai pronostici che erano da qualche settimana tutti per lei, una persona con esperienza e soprattutto dotata di quel carisma che può essere molto utile in una campagna elettorale che avrà come avversario un presidente che del carisma ha fatto il suo marchio di fabbrica ma che negli ultimi mesi, complice la pandemia da coronavirus, sembra abbia perso più di qualche colpo.
Donald Trump non è mai stato famoso per essere un soggetto politico noioso o poco stimolante. Basta farsi un giro su Twitter per capire che qualsiasi sia l’argomento della discussione qualcosa da dire il presidente degli Stati Uniti ce l’ha sempre e spesso riesce con toni anche forse esagerati a spuntarla. Risulta però difficile conciliare questa sua caratteristica coi discorsi da lui tenuti durante la convention repubblicana. Condotta anch’essa in maniera telematica, diversamente da quella democratica in questo caso qualche passaggio con il pubblico presente c’è stato e purtroppo neanche nel pieno rispetto della legalità. Con buona pace del distanziamento sociale e delle mascherine, le principali misure anti-contagio che a seconda del luogo negli Stati Uniti passano dall’essere obbligatorie all’essere facoltative, ciò che ha dato maggiormente fastidio è stata la strumentalizzazione degli spazi della Casa Bianca a fini elettorali, con tanto di cartelloni “Trump, Pence” piazzati nel cortile antistante la Casa Bianca.
Legalmente questo atto potrebbe essere perseguibile, dato che gli spazi istituzionali come la Casa Bianca sono considerati una sorta di “zona franca”, rappresentano lo Stato non un singolo individuo, neanche se presidente, pertanto in teoria ci sarebbero tranquillamente gli estremi per un’azione legale nei confronti di Trump, ma è un fatto che la cosa è passata presto nel dimenticatoio. Ciononostante il danno rimane, e di per sé anche un certo imbarazzo dato che nel 2016 Trump a chi gli manifestava il proprio timore sul fatto che avrebbe “personalizzato” la Casa Bianca disse “non metterò il mio nome sulla Casa Bianca”, promessa evidentemente non mantenuta. Trump durante la Convention è apparso quasi stanco, provato forse dagli ultimi mesi e straordinariamente ordinario. Il suo discorso principale è durato il triplo di quello di Biden, eppure è quest’ultimo ad essere schizzato ai vertici delle classifiche d’interesse mentre il discorso di Trump non solo non è stato incisivo ma neanche molto interessante.
I sondaggi e le proteste
Al di là delle convention la strada che porterà alle elezioni del 3 novembre mantiene ancora una certa coerenza almeno nei sondaggi. Da mesi ormai Biden è avanti di diversi punti su Trump, il distacco varia a seconda dei siti ma tendenzialmente chi si aspettava una risalita di Trump almeno post-convention è rimasto deluso, un po’ per colpa dello stesso Trump un po’ a causa non solo della pandemia ma anche degli ancora molti “incidenti” che vedono coinvolti persone di colore ed agenti di polizia e che spesso vedono i primi soccombere. Le proteste ed i disordini conseguenti non hanno smesso di mettere a ferro e fuoco diverse città, Kenosha e Portland per citarne alcune, e mentre Trump ha cercato prima di far passare singoli poliziotti come “mele marce” manifestando poi la necessità di “riportare l’ordine”, Biden al contrario ha voluto esprimere la propria solidarietà con messaggi che i repubblicani hanno spesso bollato come insufficienti e totalmente inutili, presentando le città in fiamme ed i negozi devastati come “l’America di Biden”.
Gli incendi nell’ovest
A proposito di città in fiamme, sono ripresi con spaventosa violenza gli incendi in tutto l’ovest degli Stati Uniti, dall’Oregon alla California dove una città intera come San Francisco è stata avvolta per ore in pieno giorno da una nube arancione, un’immagine impressionante che testimonia l’incredibile disastro e devastazione provocata da questi incendi che ogni anno distruggono quantità incredibili di terreni lasciandosi dietro anche numerose vittime.
Anche se una parte di responsabilità per questi incendi va ricercata nei tagli federali voluti dall’amministrazione attualmente in carica, non è con questi ultimi che Trump deve fare i conti ora.
Il libro di Woodward
Un durissimo colpo alla sua campagna elettorale è stato inflitto dal libro appena pubblicato di Bob Woodward, giornalista passato alla storia per aver reso pubblico lo scandalo Watergate assieme al collega Carl Bernstein. Nel suo ultimo libro, Rage, Woodward ha reso note alcune dichiarazioni di Trump del periodo febbraio/marzo in cui è evidente come il presidente sapesse già che il paese sarebbe andato incontro all’epidemia da coronavirus, sapesse già che non era una semplice influenza, che poteva essere pericolosa per le persone più anziane tanto quanto lo era per i più giovani, che erano necessarie misure di prevenzione specifiche.
Tutte cose che nelle settimane successive Trump si guardò bene dal rendere pubbliche sostenendo anzi spesso l’esatto opposto. La Casa Bianca ha smentito una buona parte del racconto e Trump solo in alcuni passaggi ha detto di aver taciuto per evitare il panico. Capire quale sia la verità non sarà facile, nonostante ci siano dei nastri, ma fatto sta che al momento un intero paese è convinto che le centinaia di migliaia di morti causati dalla pandemia avrebbero potuto essere evitate e se così non è stato è colpa dell’inquilino della Casa Bianca, convinzione che sarà molto difficile da scacciare via in tempo per le elezioni.