
Questa è una vicenda da film grottesco, di violazione della privacy e di strumentalizzazione del dolore. È la vicenda che ha visto protagoniste alcune donne che, dopo essersi dovute sottoporre a un aborto terapeutico, hanno scoperto che al cimitero romano di Prima Porta erano seppellite delle salme corrispondenti ai loro dati anagrafici.
Pensate di ricevere un foglio con tanto di mappa, recarvi al lotto indicato e trovarvici una piccola croce bianca contrassegnata dal vostro nome e cognome e di realizzare che lì sotto c’è il feto abortito durante la gravidanza. «Quando ho visto la mia tomba ho provato un dolore enorme, stavo per svenire. Lì sotto c’è mia figlia, una creatura di sei mesi che ho dovuto abortire e sopra di lei hanno messo una croce con il mio nome e cognome» dichiara una delle donne che con uno sfogo su Facebook ha portato altre a scoprire di essere a loro volta coinvolte.
La sepoltura dei feti avviene in Italia da anni in base a un regolamento della polizia mortuaria del 1990 che a sua volta si rifà a un decreto regio del 1939, emesso in piena epoca fascista, in un periodo in cui la legalizzazione dell’aborto era lontana da qualsiasi tipo di approvazione e le donne non erano minimamente tutelate. Un decreto barbaro, assolutamente anacronistico, mai revocato. I genitori hanno 24 ore prima di poter reclamare quello che viene definito “prodotto abortivo”. Dopo ciò a prendersi carico dello smaltimento del feto è l’azienda ospedaliera stessa che spesso delega il compito a terzi, la maggior parte delle volte associazioni ultracattoliche.
Tutto ciò, le scelte che vengono fatte, gli iter intrapresi, sono decisi in un momento di assoluto dolore come può essere quello dell’aborto, in un momento di debolezza fisica ed emotiva, di confusione in primis della mamma e poi di chi le sta accanto. «[…] Quello che so è che quando dalla sala travaglio mi hanno portato in sala parto mi hanno fatto firmare dei fogli. L’ho detto anche all’avvocato: io non ero in grado di intendere, avevo gli occhi al contrario ma mi hanno fatto firmare fogli con cui autorizzo cose importanti», racconta ancora la donna su Facebook.
Una distesa di croci bianche in quello che viene chiamato il Giardino degli Angeli, centinaia di nomi di donne costrette così a una sorte di morte metaforica.
Perché ad alimentare la follia grottesca di questa vicenda c’è anche l’assegnazione di un simbolo cattolico anche magari a chi, in quel simbolo, non si rivede. Come se in Italia, a meno che non lo si specifichi, si fosse cattolici a priori. Specifica però mai chiesta perché tutto questo è avvenuto all’oscuro delle protagoniste.
A partire da Elisa Ercoli, presidente di Differenza Donna, e Livia Turco (ex ministra della Salute), sono stati molti, anche tra le autorità, a mobilitarsi chiedendo chiarezza sui fatti accaduti negli ultimi giorni «Abbiamo appurato che è tutto vero. Tutto ciò è una grave violazione della privacy e dei diritti umani delle donne. Il cimitero è gestito da AMA S.p.a. e questi feti sono usciti dalle Asl: possiamo parlare di una violazione istituzionale e per questo avvieremo una grande azione legale» ha dichiarato la Ercoli dopo aver accompagnato F.T. al Flaminio. Come lei si sono schierati anche Laura Boldrini (PD) Rossella Muroni (Leu) e Riccardo Magi (radicali).
Nel caso del cimitero Flaminio, è ovviamente iniziato un rimpallo delle responsabilità tra l’associazione AMA, il cimitero e l’ospedale. «L’epigrafe in assenza di un nome assegnato, deve riportare alcune indicazioni basilari per individuare la sepoltura da parte di chi la cerca» dichiara AMA per difendersi dalle accuse di violazioni della privacy. Ma una violazione della privacy è proprio ciò che è avvenuto: la legge 194, legge che nel 1978 ha depenalizzato e disciplinato le modalità di accesso all’aborto, infatti recita così: «Chiunque […] rivela l’identità – o comunque divulga notizie idonee a rivelarla – di chi ha fatto ricorso alle procedure o agli interventi previsti dalla presente legge, è punito a norma dell’articolo 622 del codice penale».
Dopo questi fatti tragici la domanda sorge spontanea: come mai nel nostro Paese la tematica aborto sembra ancora così avvolta da tabù che sfociano poi in vicende surreali come quella appena accaduta?
La legge 194 spesso, troppo spesso, si scontra con un altro diritto che vige nel nostro paese, quello dei medici che si possono rifiutare di effettuare l’aborto perché contro le loro convinzioni etiche e religiose. Il problema è che in Italia il numero di medici, ginecologi, anestesisti e infermieri obiettori di coscienza è spaventoso. I dati ufficiali forniti dal Ministero della Salute risalgono al 2018: circa il 69% dei ginecologi sono obiettori di coscienza e questo vuol dire che, nonostante i dati non siano uniformi su tutto il territorio (più elevati i numeri in meridione), in media 7 medici su 10 non praticano l’aborto.
«È stata una tortura. Il mio ginecologo si è mosso immediatamente ma non si trovava un ospedale disponibile. Mi ha proposto di andare a Londra, ma io mi sono impuntata chiedendomi perché da cittadina italiana non potessi essere curata in un ospedale pubblico e dovessi spendere 30mila euro, che tra l’altro non ho, per andare all’estero» ha risposto F.T. alla domanda di un giornalista di Repubblica sulle difficoltà incontrate durante il percorso.
Le donne che si sono dovuto sottoporre all’aborto sono state infatti trattate in malo modo dalle ostetriche stesse, hanno dovuto trascorrere intere settimane consapevoli di ciò cui stavano andando incontro senza la garanzia di poter agire in tempi brevi, sottoposte al giudizio di sconosciuti o delle stesse persone che avrebbero dovuto aiutarle.
Questo giudizio viene espresso ancora oggi nei confronti di chi sta portando avanti una scelta, obbligata o meno, ma mai presa a cuor leggero. Donne che attraversano un momento in cui dovrebbero essere solo tutelate e protette e che invece, troppo spesso, si trovano davanti solo ostacoli e muri che in un Paese civile non dovrebbero essere mai tollerati.