Del: 17 Novembre 2020 Di: Erica Ravarelli Commenti: 0
Bookcity 2020: Rossella Ghigi e l'educazione di genere

La pandemia non ha fermato Bookcity Milano, la manifestazione a cadenza annuale volta a promuovere il valore della lettura attraverso dibattiti e presentazioni di novità editoriali. Come di consueto, il nostro Ateneo ha partecipato organizzando ben 43 eventi online durante i quali docenti e ospiti esterni si sono confrontati sui due temi a cui è stata dedicata la nona edizione della manifestazione: la sostenibilità ambientale e i talenti delle donne.

È nel secondo dei due ambiti che rientra la presentazione del libro di Rossella Ghigi: “Fare la differenza. Educazione di genere dalla prima infanzia all’età adulta“. Più di 150 persone “presenti” sono state invitate a riflettere sugli stereotipi di genere che pervadono la società, sottolineando l’urgenza di un intervento volto ad evitare che le naturali differenze si traducano in disuguaglianze e discriminazioni.

Nel suo discorso, l’autrice ha spiegato che cosa si intende per “educazione di genere” prendendo le mosse dalle critiche comunemente rivolte a tali tecniche educative. Non si tratta, ha precisato la docente, di cercare di neutralizzare le differenze, ma di costruire degli “occhiali di genere”, cioè dei filtri che ci permettano di guardare la realtà in modo più consapevole.

Quante volte una donna viene criticata – o anche elogiata – esclusivamente per il suo aspetto fisico? Quante volte una donna che ricopre posizioni di potere è accusata di aver raggiunto il successo vendendo il proprio corpo piuttosto che impegnandosi duramente?

Il riferimento al post sessista contro la neoeletta Vicepresidente Kamala Harris è stato esplicitato senza remore.

Il punto è che raramente simili accuse vengono rivolte agli uomini, perché la rigida dicotomia maschio/femmina prevede che lui sia mente e lei sia corpo. Educare al genere ci permette di evitare tanto il sessismo ostile, quando quello benevolo: è bello fare un complimento a una bambina elogiandola per il suo aspetto fisico, ma avremmo fatto la stessa cosa con un bambino? Educare al genere, ha proseguito la professoressa Ghigi, non significa neanche pretendere di eliminare gli stereotipi. Difficile ammetterlo, ma senza stereotipi di genere non saremmo in grado di orientarci nella complessità della realtà. Occorre, quindi, essere consapevoli della funzione semplificatrice che essi svolgono, aprendoci alla possibilità di essere contraddetti da un bambino che voglia giocare che le barbie o che usi i pezzi dei lego per costruire una casa per le bambole anziché una navicella spaziale.

Su quest’ultimo punto Rossella Ghigi è tornata più volte nel corso del suo intervento, ponendo l’accento sulla difficoltà di accettare che un bambino tenga un comportamento considerato troppo “femminile” (qualunque cosa ciò significhi).

Il tema della mascolinità va affrontato con consapevolezza, partendo dal presupposto che «anche i genitori più progressisti faticherebbero a vestire di rosa il loro figlio maschio», mentre sarebbe meno restii a vestire di azzurro la loro figlia femmina.

Questo significa, spiega la professoressa, che la socializzazione di genere porta a costruire due mondi contrapposti e tendenzialmente inconciliabili sin dalla prima infanzia: un’eventuale deviazione dal percorso previsto per il proprio sesso è considerata l’eccezione che conferma la regola, e avrà un connotazione positiva per la donna (il famoso complimento: “sei una donna con le palle“), mentre l’uomo verrà considerato debole, inadatto (quante volte si sente un adolescente insultare un suo coetaneo che si comporta “da donna” con la parola “frocio”?). Lavorare sulla mascolinità significa dare ai bambini la possibilità di essere maschi come preferiscono, perché «si può essere veri uomini anche nella vulnerabilità dell’altro e nella cura dell’altro».

Gli ultimi minuti dell’incontro virtuale sono stati dedicati ad una riflessione riguardante la carenza di interventi concreti: nonostante a livello legislativo i supporti all’educazione di genere siano numerosi e risalenti nel tempo (dalla Conferenza di Pechino del 1995 alle varie direttive europee che, ricordiamolo, sono vincolanti per gli Stati membri), nella pratica mancano progetti che prevedano la formazione degli insegnanti e l’inclusione dei genitori, che hanno il compito di continuare l’azione educativa a casa.

Non si può negare che la pandemia costituisca un ostacolo anche in questo frangente – soprattutto per i più piccoli – tuttavia l’auspicio è che in futuro le nuove generazioni possano ricevere gli strumenti per apprezzare la bellezza della complessità.

Erica Ravarelli
Studio scienze politiche a Milano ma vengo da Ancona. Mi piace scrivere e bere tisane, non mi piacciono le semplificazioni e i pregiudizi. Ascolto tutti i pareri ma poi faccio di testa mia.

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