Del: 24 Novembre 2020 Di: Silvia Bonanomi Commenti: 0
David Bowie lettore: 100 libri per (far) parlare di sé

In una scena di “The Runaways”, film del 2010 dedicato all’omonimo gruppo rock, Dakota Fanning, che interpreta la giovanissima Cherie Currie (cantante del gruppo), guardandosi allo specchio inizia a tagliarsi i capelli modellandoli in un biondissimo mullet; poi prende un pennello, lo intinge nella tempera rossa, e inizia a disegnare una saetta sul volto. In due semplici gesti, a chi siede dall’altra parte dello schermo, è subito chiaro chi stia cercando di imitare.

Il David Bowie tra chioma rosso fuoco e viso truccato è probabilmente quello conosciuto ai più, è anche un David Bowie incompleto: alle proprie spalle tante storie quante ne avrebbe poi raccontate con la sua persona. E quale occasione migliore per parlare di storie se non la pubblicazione italiana, a cura di Blackie Edizioni, de “Il book club di David Bowie: i 100 libri che hanno cambiato la vita di una leggenda”, scritto dal giornalista John O’Connell?

La lista dei 100 libri scelti dall’artista – nato a Brixton nel 1947 con il nome di David Jones – è stata scritta di suo pugno: è lo stesso O’Connell a suggerirci come questo gesto alimenti la narrazione che vede Bowie parte attiva – attivissima – nella costruzione del proprio mito (passato, presente, futuro). Il giornalista ha pensato di accompagnare ogni titolo con un breve saggio, riuscendo in un’impresa potenzialmente autodistruttiva: accogliere la complessità di una carriera come quella di Bowie, senza un informatico copia e incolla di nozioni alimentate da un fine didascalico. In qualsiasi momento si può aprire un saggio qualunque contenuto nel volume e, senza aver letto precedente e successivo, O’Connell burattinaio muove un pezzo di vita di Bowie, spesso un pezzo di vita dello scrittore di uno dei cento libri e poi, ovviamente, un pezzo di materia letteraria.

Non è strettamente necessario avere una conoscenza della biografia del cantante inglese, conoscerne tutti i vorticismi (come quel Vorticismo poundiano che invece Bowie conosceva bene) dagli anni Sessanta al nostro Secolo, ovvero quello della sua morte.

È però quasi certo che, una volta finito un saggio se ne voglia iniziare un altro, e poi un altro ancora, e poi accendere il computer e cercare quella canzone che O’Connell cita, quel film in cui Bowie ha recitato, quell’indirizzo dove abitava a Berlino alla fine degli anni Settanta.

È proprio quel periodo della chioma rossa, impresso nella testa di tutti, ad aprire le danze. Per David Jones, che negli anni Sessanta sposava l’inglesissima subcultura giovanile Mod, è stata anche una lettura a cambiare tutto. Intorno al 1972, il giovane che aveva già incontrato il successo con quattro album e che aveva già cantato del celebre Major Tom, subisce il fascino di “Arancia meccanica”: il romanzo distopico di Anthony Burgess che oggi tendiamo a evocare prima nella versione cinematografica di Kubrick (dalla quale, comunque, anche Bowie aveva attinto).

Nasce in questo momento Ziggy Stardust (come spesso ancora lo si chiama, forse sbagliando o forse no): senza genere, alieno, si muove e fa muovere gli Spiders from Mars – i componenti della band – dentro a scintillanti bluse e pantaloni infilati in stivali stringati. Sono i drughi di Brugess, ma senza il dettaglio estetico delle brachette, dettaglio che contribuiva a renderli ancor più disturbanti. Più luccichio, una versione glam rock: lo diceva lo stesso Bowie.

Un servizio fotografico del 1972: Ziggy Stardust è appena nato.

Titoli come “Il dogma dell’alta magia e il rituale dell’alta magia e i “Vangeli gnostici” oggi potrebbero anche andare a braccetto con un certo livello di coolness, ma quando nei primi anni Settanta, quelli statunitensi – al culmine della sua dipendenza da cocaina – Bowie appariva nelle interviste televisive disegnando strani simboli sul tappeto, le allusioni rispetto alla sua figura e a determinati messaggi veicolati nei testi delle sue canzoni erano tutt’altro che lusinghiere. “Station To Station”, l’album manifesto di questo periodo, ingloba questo tipo di letture, spesso in maniera approssimativa: tra Cabala e Albero della Vita, da una stazione all’altra.

Leggere e ricordare dei successivi anni berlinesi di Bowie ha sempre un sottotono romantico: la Berlino degli anni della guerra fredda è la città della sua rinascita dopo l’esperienza con la droga, è la città che gli ha fatto conoscere nuovi suoni (come quelli dei Neu!) e, ancora una volta, si tratta di una scelta – quella del trasferimento – che ha accompagnato a una lettura ben precisa: “Addio a Berlino” di Cristopher Isherwood.

Quello che O’Connell riesce a fare – e bene – è tratteggiare un Bowie moderno, curioso verso tutti e tutto, non solamente cristallizzato nei personaggi che si divertiva a creare.

Un Bowie che legge Wallace Thurman e ascolta Kendrick Lamar, che guarda “Peaky Blinders” su Netflix proprio come alcuni di noi che non erano ancora nati quando lui cantava “Heroes” dalla Berlino Ovest e la Berlino Est si riuniva nei pressi del muro per ascoltarlo.

Quello di Bowie non è un invito alla lettura, non è una lista compilativa. David Bowie di certo non invitava a far cose: Bowie, utilizzando quel brutto verbo di cui tutti ultimamente abusiamo, influenzava e influenza: nella maniera più autentica, però.

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Silvia Bonanomi
Mi chiamo Silvia virgola Marisa, sono qui per rispondere a chi mi chiede cosa voglio fare dopo l'università.

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