Già nel febbraio 2020, l’Organizzazione mondiale della Sanità iniziava una campagna di sensibilizzazione sul pericolo dell’infodemia, definita come «sovrabbondanza di informazioni, alcune accurate e altre meno, che si diffonde in contemporanea con la pandemia da Covid-19». Infatti, secondo uno studio della Fondazione Bruno Kessler, che ha analizzato 100 milioni di tweet pubblicati tra gennaio e marzo 2020, sugli oltre 20,7 milioni di link condivisi dagli utenti, solo 4.000 erano curati da esperti, mentre gli altri contenevano informazioni poco dettagliate o con fonti difficili da rintracciare.
Ma l’infodemia non è solo un pericoloso vettore di fake news e complottismi.
Annoverata fra le cause della c.d. pandemic fatigue, l’infodemia rappresenta anche la conseguenza dell’esposizione costante alle notizie provenienti da tutto il mondo, accentuata dall’utilizzo costante dello smartphone.
Attachi di panico, senso di smarrimento, paura, vera e propria stanchezza fisica sono alcuni dei sintomi causati dalla pandemic fatigue, derivanti dall’incertezza sulle condizioni di salute dei membri della comunità, sulle possibili restrizioni che verranno imposte, ma anche sull’andamento degli studi sui vaccini, che attualmente sembrano l’unica speranza per uscire dall’incubo del Covid. Lo scrolling costante delle bacheche social permette la comparsa costante di nuove informazioni e nuovi dettagli sull’evoluzione della situazione, nella speranza di trovare certezze o quanto meno appigli per il proprio futuro.
La facilità di reperimento di tante informazioni in un ristretto periodo di tempo non è una novità del 2020, ma mai fino ad oggi l’offerta sul mercato era stata tanto ampia.
Bisogna infatti ricordare che agenzie di stampa, giornali e social network non sono altro che imprese private, le quali competono tra loro offrendo i propri servizi su un mercato estremamente fruttuoso.
È per questa ragione che le testate giornalistiche, cavalcando l’onda dell’attenzione degli utenti sul virus, non si fanno troppi scrupoli nel pubblicare ogni giorno centinaia di nuovi spunti di riflessione, ricerche su questa o quella cura, studi su vaccini ancora ai primi stadi, puntando sempre più sulla quantità che su qualità, accuratezza e soprattutto utilità sociale del messaggio.
Per comprendere il pericolo e la gravità di tale fenomeno, basterà pensare agli effetti causati dalla circolazione anticipata delle bozze dei dpcm varati dal Premier Conte negli ultimi mesi: dalla fuga notturna dei fuorisede verso il Sud, alle incomprensioni sulle misure effettivamente in vigore, fino alle proteste sfociate in violenza delle scorse settimane.
Se è vero che il futuro del giornalismo è online, è altrettanto vero che i social network non tarderanno ad approfittare della loro posizione. Secondo le analisi più recenti, con il lockdown l’uso delle piattaforme di social networking è cresciuto a livello globale almeno del 30%, soprattutto a causa dell’accresciuta disponibilità di tempo da trascorrere online, ma anche per la sete di ultime notizie scatenata dall’instabilità della situazione.
Insomma, chiunque in questo momento sia in possesso di un televisore o di un account social è incluso in un circolo vizioso in cui si tenta di rispondere all’incertezza attraverso l’informazione, l’eccesso della quale scatena maggiore incertezza.
Il risultato di questa pandemia digitale è duplice e opposto: se da un lato alcune fette di popolazioni si lasciano prendere dal panico, dall’altro si assiste alla crescita di disinteresse sull’evoluzione della situazione, e al conseguente abbandono delle misure di sicurezza contro il diffondersi della malattia.
Per quanto auspicabile, è poco probabile che le imprese private che si occupano di informazione e social networking si autoregolino per limitare le conseguenze negative della loro attività: l’unica soluzione all’infodemia sembra essere invece l’autocontrollo degli utenti stessi.