Questa rubrica racconta le elezioni americane del 3 novembre. A questo link le puntate precedenti.
Dopo tre giorni di conteggi e riconteggi, il 7 novembre Joe Biden e Kamala Harris sono stati ufficialmente chiamati dalle maggiori testate nazionali a ricoprire il ruolo, rispettivamente, di presidente e vicepresidente degli Stati Uniti d’America. Decisivi la Pennsylvania e il voto per posta.
Festeggiamenti, urla di gioia, in qualche caso anche pianti. Scene del genere negli Stati Uniti non si vedevano da un po’ di tempo, probabilmente dal 2008, quando a salire alla Casa Bianca era stato niente di meno di Barack Obama. Il 7 novembre 2020, annus horribilis per tutti i motivi ben noti, verrà ricordato come giorno di una delle più straordinarie vittorie presidenziali che l’America abbia mai visto. Joe Biden, il candidato democratico che aveva cominciato il proprio cammino alle primarie democratiche con più di qualche inciampo, alla fine è riuscito a spuntarla, una vittoria che sorprende per come è arrivata, strappando a Trump gli stati del Midwest, Wisconsin e Michigan, in cui i repubblicani avevano sfondato nel 2016, e per i numeri che l’hanno supportata. Biden infatti passerà alla storia come il candidato più votato nella storia delle elezioni presidenziali americane, più di 75 milioni di voti, numero che è comunque destinato ad aumentare.
Accanto a Biden, vale la pena di spendere qualche parola anche per la sua running mate, Kamala Harris. A questa elezione, infatti, sembrano non mancare i record, che tuttavia in questo caso assume toni più intimi, più ideali, e di conseguenza anche più straordinari. Kamala Harris infatti diverrà la prima vicepresidente donna nella storia degli Stati Uniti, non solo, anche la prima persona non bianca a ricoprire tale ruolo. In pratica, un clean sweep. Dell’importanza di un tale evento non è necessario spendere smodate parole, il fatto parla per sé, ed inoltre ha forse più impatto osservare la sentita telefonata di Harris a Biden al momento della vittoria, circa cinquanta secondi di video, pubblicato sull’account Twitter della stessa Harris. Un’emozione che si commenta da sola.
Al di là dell’emozione della vittoria, è interessante pensare a ciò che verrà nei prossimi giorni e nelle prossime settimane. In primo luogo, la fine dei conteggi. È notizia di questa mattina infatti la vittoria di Biden anche in Nevada, che lo proietta, quando mancano ancora all’appello Alaska, North Carolina, Arizona e Georgia, a 279 grandi elettori. Non che, a questo punto, il risultato possa essere messo più in discussione, ma pensare che i risultati in questi stati non possano in qualche modo incidere sul tono generale di queste elezioni sarebbe un errore tutt’altro che banale. Trump, infatti, è dato in vantaggio e quindi vincitore in almeno due di questi, Alaska e North Carolina, il che potrebbe far sorgere dubbi sull’effettiva vittoria di Biden e sulla stessa larghezza di quest’ultima.
D’altra parte, Trump ha già dichiarato in più di un’occasione come non abbia alcuna intenzione di ammettere la sconfitta, ed anzi che vuole fare ricorso ovunque sia legalmente possibile, chiedendo anche i riconteggi dei voti.
Tutte opzioni nel suo pieno diritto, e che rimandano per certi versi a ciò che accadde nel 2000, quando il candidato democratico di allora, Al Gore, si ostinò per giorni a sostenere una sua vittoria in Florida, stato decisivo, che tuttavia venne in seguito assegnata a Bush dalla Corte Suprema. In quella circostanza Gore fece un discorso piuttosto complesso, arrivando a dire che non era assolutamente d’accordo con la decisione presa, pur accettandola in quanto tale.
Ma cosa può fare realmente Donald Trump a questo punto? Di fatto, questa domanda è piuttosto semplice. Non molto. A parte infatti chiedere indagini e riconteggi, cosa che, anche se prevista, raramente ha effetti significativi sui risultati – al massimo spostano qualche voto – sembra che Trump abbia in ogni caso perso definitivamente queste elezioni. Negli scorsi mesi era diventato ormai palese come Trump fosse di fatto sul filo del rasoio, come sembrasse in netta difficoltà anche nei suoi punti di forza. Credere che questa ostinata volontà di non ammettere la sconfitta possa in qualche modo cambiare il destino di queste elezioni sarebbe quantomeno fuorviante.
La vittoria di Biden è stata davvero così “importante”? Guardando ai meri numeri delle presidenziali si direbbe che è così, ma osservando invece i numeri della Camera e del Senato il risultato dei democratici appare piuttosto deludente. Camera dei Rappresentanti e Senato infatti sono oggetto ogni due anni di un rinnovo, che tuttavia avviene con modalità molto diverse. Mentre la Camera si rinnova completamente (il mandato dei singoli deputati dura solamente due anni) il Senato si rinnova con cadenza biennale solamente per un terzo dei suoi membri, il cui mandato da Senatore dura sei anni. La CNN fa notare come, rispetto a due anni fa, la Camera, pur restando a maggioranza democratica, ha visto crescere i numeri dei repubblicani, che mantengono al tempo stesso una forte presenza al Senato, che potrebbe addirittura conservare una maggioranza repubblicana. Questi numeri sono indicatori di un fattore che potrebbe togliere qualche sorriso tra le fila dei democratici.
Sembra infatti che una buona parte degli elettori repubblicani abbia deciso di votare per Joe Biden, ma non per i democratici, confermando anzi la propria predilezione per l’establishment repubblicano. Una situazione del genere dice molto sia dell’opinione generale nei confronti di Trump, sia della fiducia nei confronti di una amministrazione democratica. In primo luogo, sembra che Trump abbia definitivamente perso il proprio appeal che, sebbene sia stato anche supportato dal voto popolare, più di 70 milioni di americani hanno votato per lui, ha perso il supporto del partito, forse stanco di una figura tanto ingombrante. È già partito il treno che dovrebbe portare alla fine del “trumpismo”, ma molto si capirà nelle prossime settimane. Al contrario, non traspare molta fiducia sulle reali possibilità dell’amministrazione democratica, che potrebbe non riuscire a svolgere il proprio lavoro, avendo numeri bassi sia alla Camera che al Senato, fattore che potrebbe rendere i primi due anni della presidenza Biden tutt’altro che rivoluzionari e riformisti, sempre contando la netta maggioranza repubblicana alla Corte Suprema.
In conclusione, rimane la sensazione che dopo quattro anni di Donald Trump gli Stati Uniti abbiano deciso di cambiare decisamente rotta.
L’aggressività politica di Trump è stata sostituita con l’arguzia e la calma di Biden, il conservatorismo di Pence verrà dimenticato con il progressismo di Harris. Un forte entusiasmo, nelle ultime ore, si è impossessato di tutte le principali città americane, tutte unite nel dare il proprio benvenuto a Joe Biden, su cui moltissimi americani contano di fare affidamento, da un lato per uscire da una pandemia globale che negli Stati Uniti continua a mietere vittime, e dall’altro per riunire con toni amichevoli e sicuri una nazione che, negli ultimi quattro anni, ha visto ridestarsi lo spettro del razzismo sistemico. La gestione della politica estera rimane un elemento di forte interesse, che potrebbe riscontrare più di qualche problema nella nuova amministrazione Biden, specie ragionando secondo la scaletta delle priorità dettata dagli stessi democratici.