Per i primi 140 anni di attività, il Teatro alla Scala di Milano inaugurò l’inizio della stagione teatrale il 26 dicembre. Soltanto nel 1940 venne adottata l’attuale consuetudine di aprire la stagione lirica il 7 dicembre, il giorno di Sant’Ambrogio. Diventò stabile però solo nel 1951 con il primo trionfo milanese di Maria Callas nei Vespri Siciliani e da allora, ogni anno, il patrono di Milano assiste alla rappresentazione più importante della città il giorno della sua celebrazione. Per ben 70 anni le luci del teatro si sono accese per accogliere artisti, spettatori, tecnici, critici e giornalisti. Puntuali e affascinanti.
Eppure quest’anno qualcosa di diverso c’è stato, le luci non si sono accese in teatro ma nelle case degli italiani.
La Prima della Scala è stata infatti annullata causa Covid-19 e così anche la Lucia di Lammermoor di Donizetti. Un annullamento rivoluzionario, nella storia e per il pubblico. Per la prima volta nella storia è stato dato il privilegio di assistere alla Prima a ogni cittadino. Evento unico, eccezionale, straordinario. L’arte si è fatta popolare eludendo l’elitarismo in un momento di crisi. Si è rivoluzionata e reinventata. Non si è assistito infatti a un’opera nel senso tradizionale del termine ma a uno spettacolo di musica e danza, con il Direttore Riccardo Chailly e la regia di Davide Livermore, tre ore con Roberto Bolle e il corpo di ballo della Scala, con l’Orchestra e il Coro del teatro. «Un’avventura straordinaria» afferma il maestro Riccardo Chailly. Ma senza pubblico, in diretta tv.
Lo spettacolo si è aperto con il volo della Musa della Musica sopra Milano, sopra i nuovi grattacieli che si stiracchiano luminosi verso il cielo, sorvolando l’antica bellezza del castello sforzesco, il verde della città, poi il Duomo e infine piazza della Scala, fin dentro ai palchi del teatro dove aleggia l’Inno d’Italia appena sussurrato da una donna delle pulizie nella solitudine della Scala.
Poi la luce si accende e gli altri lavoratori occupano il palco. Quando il direttore d’orchestra Riccardo Chailly dà l’attacco sono loro a cantare l’Inno di Mameli. Un modo semplice e dissacrante per dire che la Scala c’è. C’è e vuole esserci anche in un momento drammatico come quello attuale. Perché l’arte, di cui questo spettacolo diventa emblema, è un momento di aggregazione e di compagnia capace di entusiasmare e di trasmettere emozioni. Non potrà forse combattere la pandemia ma può certamente combattere la situazione mentale. Può dare forza e fiducia nel futuro.
E così ci si lascia trasportare attraverso 15 autori in 15 stili differenti, tra musica, danza e teatro: arte e bellezza. Un materiale eterogeneo che ha saputo mettere insieme epoche, tradizioni e arti differenti. Un viaggio musicale che parte dal tema della maledizione di Rigoletto per arrivare alla catarsi di Guglielmo Tell.
È stato uno spettacolo militante che ha voluto ricordare al Paese che il teatro è il luogo in cui è stata fondata la parte civile della nostra società. Questo è il luogo in cui le persone hanno scoperto di essere cittadini.
«É dall’arte che dobbiamo ripartire per scoprire di essere migliori, per superare le differenze e le spezzature che questo Paese ha. Stiamo perdendo quel senso di umanità che possiamo ritrovare solo attraverso l’arte e la bellezza» sono le parole del regista Davide Livermore alla fine della Prima. E conclude: «Il teatro e la cultura sono di tutti. Difendiamoli».
E dopo tutta questa bellezza si arriva infine all’ultima nota e c’è il silenzio assoluto. I palchi sono vuoti e c’è sì una grande emozione ma anche un senso di grande mancanza. E si cela proprio qui il senso della Prima del Teatro alla Scala 2020. Nel senso di vuoto che rimbomba nell’eccezionalità di questa serata.
Un senso racchiuso e sintetizzato nel titolo che dà nome alla serata. A riveder le stelle infatti, oltre a essere un omaggio all’anniversario della morte del padre della poetica e della lingua italiana, vuole essere un messaggio pieno di speranza, di coraggio, di limpida fiducia verso il futuro. Una luce che sia l’inizio di una rinascita alla fine di questo lungo, drammatico anno doloroso. Perché in questo tempo instabile e sofferente solo con l’arte si può pensare di poter tornare a vivere davvero e infine, miracolosamente, “a riveder le stelle”.