Del: 24 Dicembre 2020 Di: Diego Megale Commenti: 0
Eddi Marcucci: una condanna senza reato

Nessun passo indietro da parte della Magistratura di Torino sul caso di Maria Edgarda Marcucci, la ventinovenne romana che tra il 2017 e 2018 aveva combattuto a fianco dei curdi in Siria contro lo Stato Islamico: confermato in appello la condanna a 2 anni di sorveglianza speciale.

Non è bastato il grande clamore mediatico e soprattutto la lunga mobilitazione popolare che in questi mesi ha coinvolto centinaia di attivisti, intellettuali, giornalisti ed esponenti politici: Maria Marcucci, detta “Eddi”, resta privata delle proprie libertà personali e dovrà continuare a vivere fino a marzo 2022 sotto sorveglianza speciale, una misura tanto unica quanto anomala del codice penale italiano, risalente addirittura al Codice Rocco di epoca fascista.

«Si riconferma l’eccezione torinese in cui procura e Tribunale fanno quello che vogliono. Il Decreto fa orrore, traccia una situazione inquietante per cui basta partecipare a un collettivo o una manifestazione, perché valga la sorveglianza speciale. Questa è una sentenza ideologica» Con queste parole, affidate al suo account Instagram, la giovane romana ha commentato l’esito della sentenza, arrivata nell’ultimo dei 40 giorni che la Corte si era presa per esprimersi sul caso. 


La storia di Eddi sale agli onori delle cronache all’indomani della sentenza del processo di primo grado, emessa il 17 marzo 2020, in cui la giovane era imputata insieme ad altri 5 italiani con l’accusa di aver appreso l’uso delle armi all’estero e di essere quindi potenzialmente pericolosa per lo Stato italiano a causa anche del suo noto attivismo politico. A differenza degli altri imputati, Eddi, unica donna, venne riconosciuta colpevole e condannata. 

A destare scandalo è soprattutto il tipo di pena inflitta dal giudice.

La sorveglianza speciale è infatti una misura fortemente coercitiva che comporta pesantissime restrizioni alla libertà personale, alla mobilità, alla libertà di associazione e di espressione politica.

Più nello specifico, gli individui costretti a vivere sotto sorveglianza – misura risalente al Codice Rocco di epoca fascista – sono obbligati a rimanere nella propria abitazione dalle 21 alle 7 del mattino e a non poter accedere agli esercizi pubblici dopo le 18, con obbligo di informare la questura dei propri spostamenti fuori città che devono essere ogni volta convalidati su un apposito libretto che l’individuo deve sempre avere con sé; in più è espressamente vietato prendere parte a manifestazioni, presidi e qualsiasi tipo di riunione pubblica.

A spingere il Pubblico Ministero ad accogliere le richieste dell’accusa in primo grado furono le seguenti motivazioni: «Indipendentemente dalla qualificazione che le si riconosca, l’arruolamento in un’organizzazione paramilitare e la partecipazione a scontro bellici rende altamente probabile l’impiego per la commissione di reati delle acquisite conoscenze».
Eddi, dunque, non veniva condannata per aver commesso un reato specifico ma per il fatto che potesse rappresentare in futuro un possibile pericolo sociale dovuto all’addestramento militare ricevuto in Siria.

Ciò ha fatto emergere la particolare anomalia della sorveglianza speciale poiché il nostro codice penale, com’è noto, si regge sul “principio di colpevolezza” che permette di giudicare e condannare solamente individui che hanno commesso dei reati ma, nel caso specifico della Marcucci, non vi era traccia di alcuna condotta illegale ma si agiva secondo un giudizio preventivo (e dunque discrezionale) da parte del giudice. Quest’ultimo, sulla base di considerazioni intuitive e su un quadro di probabilità indicate da una soggettiva prognosi criminale, ha emesso quella che sembra assumere a tutti gli effetti le sembianze di una sentenza politica.

Infatti appare evidente come la motivazione non sia collegata esclusivamente alle conoscenze belliche dell’imputata ma sia soprattutto un atto di persecuzione politica poiché Eddi è anche una nota attivista del movimento femminista “Non Una di Meno” e sostenitrice della causa NO TAV in Val Susa. Quello che vengono condannati sono dunque i suoi ideali politici, il suo impegno nella società a difesa dei più deboli, delle minoranze e delle donne.

Un atto di repressione del dissenso che dovrebbe farci preoccupare sulla democraticità del nostro sistema politico.

L’esito della sentenza non può comunque cancellare l’enorme valore simbolico che porta con sé la storia di Eddi: una moderna partigiana che, ispirata dai principi di libertà e di giustizia, ha deciso di prodigarsi al fianco dei più sfortunati, lottando contro ogni forma di discriminazione, fascismo e violenza.

E tra i popoli maggiormente perseguitati oggi ci sono i curdi, un’etnia con una tradizione antica che da oltre un secolo è costretta a vivere divisa tra Siria, Iran, Iraq e Turchia. Tutti questi paesi hanno in comune l’odio verso i curdi e le violente persecuzioni che mettono in atto nei loro confronti.

Nel 2012 in Siria però si è aperto uno spiraglio di luce per il popolo curdo: la guerra civile scoppiata contro il regime di Assad, sulla scia delle Primavere Arabe, ha dato loro la possibilità di imbracciare le armi per dare vita ad una regione curda autonoma nel nord-est della regione, denominata Rojava.

Il Rojava oggi non rappresenta solamente il sogno d’indipendenza di un popolo ma è anche un laboratorio rivoluzionario di democrazia dal basso, teso a creare all’interno di una delle aree più instabili e repressive del mondo una realtà di speranza, fondata su concetti rivoluzionari quali il municipalismo libertario, l’ecologia sociale, l’uguaglianza di genere ed un modello di autogoverno popolare che possa far convivere pacificamene diverse etnie.

Un modello politico che prende il nome di Confederalismo Democratico.


A supporto di questo ideale nel corso degli ultimi anni sono accorsi in Rojava volontari da tutto il mondo, compresa Maria Marcucci, alla quale tutti noi dovremmo sentirci in debito. Lei è il volto più bello di una generazione che spesso viene attaccata per la mancanza di partecipazione e coscienza politica ma che in realtà è ancora capace di credere all’idea che un mondo migliore sia possibile. Combattere l’ISIS, combattere per la libertà di un popolo, combattere per portare pace e democrazia non dovrebbe mai essere considerato un’accusa da cui difendersi davanti un tribunale bensì un merito di cui andare fieri e verso il quale nutrire profondo rispetto e riconoscenza.

Diego Megale
Classe 1994, laureato in comunicazione. Amo tutto ciò che è vintage, antico, che racchiude una storia. Mi occupo principalmente di conflitti sociali, disuguaglianze ed ambiente.

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