Diana Spencer, per un decennio intero personificazione indiscussa della favola a lieto fine, intangibile, glorificata, incomparabile. Chioma folta di bionde ciocche scomposte, sguardo chino e avvolto dal pudore più innocente, occhi azzurri e imperscrutabili, fioco schermo a tormenti abissali e tenere chimere; una convivenza disordinata, tempestosa dell’io più interiore, ma che, all’esterno, nella sua sintesi più plastica, brillava di incantevole magia, irresistibile. Il fascino aureo di un personaggio che in breve tempo divenne calamita delle attenzioni di intere generazioni. Climax in incessabile crescendo, lo charme della candida Diana superava la magnitudo di qualsiasi altra mania. La sua onnipresenza sulle testate giornalistiche era il supremo strumento nelle mani della stampa durante l’ultimo trentennio del secolo scorso, garanzia di affluenze dai guadagni esorbitanti. Eppure, se si rammenta che attualmente in Regno Unito vige una monarchia parlamentare, quale ruolo così influente avrà mai potuto investire una neo-principessa in una nazione dove la corona non è più nient’altro che una formalità?
All’epilogo di un 2020 travagliato di realtà, riemerge la febbricitante aspirazione alla regina dei cuori: in occasione dell’ultimissima uscita di Netflix, la quarta stagione di The Crown, ove la finzione si mischia impeccabilmente con la storiografia, l’investigazione sorge spontanea, e così questo articolo è servito. Arduo permane il tentativo di spiegare cosa fu il fenomeno-Diana, riduttivo sarebbe definirla una celebrità: un fuoco attorno al quale ruotare, una fuga dalle sterili monotonie; con Diana, l’illusione primeggiante di uno stile di vita assai distante da quello ordinario si faceva carne, e concretava un onirismo con impeccabile successo, considerate le attitudini spesso trasgressive: Diana era la principessa alla quale si poteva stringere la mano.
Commosse gli inglesi con il suo velo lunghissimo al matrimonio reale del 1981; oltre due miliardi di cuori battevano all’unisono il 6 settembre 1997, in occasione della cerimonia funebre, nel lamento compatito di una morte troppo “banale”.
Sposa del principe Carlo (figlio primogenito di Elisabetta II e prossimo erede al trono di Inghilterra) alla giovanissima età di diciannove anni, “Lady Di” è sin da subito un’eccentricità di attenzioni, il suo piglio ermetico e al contempo soave suscita ogni forma di curiosità, alle volte indiscreta. Il culto della Principessa del Galles fu di mastodontico clamore, ma niente affatto irrazionale. L’angelica e mielata voce di Diana parlava la lingua delle masse, dalle alture sfarzose di un mondo considerato irraggiungibile. Prima di allora, una tale carica innovativa era stata recapitata solo dalla regina Elisabetta II: la sua cerimonia di incoronazione fu la prima nella storia della monarchia britannica ad essere trasmessa in diretta televisiva, rendendo partecipe la collettività di un evento fino a quel momento ritenuto inaccessibile.
Con Diana si aprivano nuove porte; se vista di malocchio dagli ordini della famiglia reale, gelosa della conservazione di determinate formule simboliche e preziose all’élite, dall’altro lato Diana ripercuoteva trionfo nell’opinione pubblica, regalava quei sentimenti che, nella loro elementarità, si rivelavano genuini, perciò essenziali: amore, speranza, altruismo. Eversiva e determinata, Diana indirizzò i suoi doveri da protocollo reale verso cause solitamente ignorate dall’establishment a cui apparteneva. Le sue campagne di sensibilizzazione verso l’AIDS le permisero di affiorare da ogni standard, dimostrando l’astuta capacità di “corteggiare” i paparazzi.
Con gli occhi del mondo intero addosso, Diana accontentava nel pubblico e pativa nel privato. La sua sofferenza personale veniva dipinta sul prossimo in senso capovolto; Diana era lo specchio di ciò che ella stessa desiderava ricevere: rifletteva affettuosità poiché ne subiva carenza in prima persona, la sua empatia era ciò che accattivava, assicurandole fama mondiale. Il caso-Diana è considerabile come il primo vero sintomo della nuova potenza dei media, non solo per i numeri sorprendenti che conquistava, ma anche per l’effetto che generava sulle persone.
Figura cosmopolita, fu primo modello di una realtà globalizzata, recepito in larga ed egual misura in ogni angolo del pianeta.
Diana non era solo un’immagine, un look oppure un pettegolezzo; la sua resilienza, l’affetto incondizionato di una madre per i figli, la dedizione alla beneficenza, priva di misericordia e abbondante di comprensione, la trasformarono in una traccia distinta a cui ispirarsi, semplice e diretta nei valori veicolati, comprensibile dai più. Proprio come i parametri degli odierni social network, Diana era mediatica: prima ballava con John Travolta, poi stringeva la mano a Maria Teresa di Calcutta; le immagini che la immortalano attraversare campi minati in Angola come atto di protesta contro le mine antiuomo sono un vero terremoto nella platea vastissima che segue, quasi morbosamente, ogni sua mossa. E lei si faceva inseguire, camaleontica, adattiva ed elegante.
Da maestra di asilo a membro della famiglia reale più nota in assoluto, fresca e corporea, umile e delicata, era solo e solamente Diana a inaugurare l’inizio di una nuova era, sfiduciata dalle cicatrici del passato, e dunque bramosa di una prossima opportunità. Che il suo epilogo talmente tragico e inatteso, aldilà di teorie complottiste, sia il suggerimento di una delizia che va frantumandosi, perché Diana, come tutti i sogni più belli, è destinata a terminare in anticipo? La risposta è soggettiva, ma l’ondata di suggestione seminata da questa donna-principessa lascia tutt’ora riflettere. Per quanto antipatica alla sede reale, Diana, con il suo spirito conciliatorio, ne garantì la sopravvivenza, in quanto riuscì a leggere nel vergine bisogno di prossimità del suo popolo, laddove la fredda corona non faceva altro che allontanarsi. Con Diana, gli inglesi hanno dimostrato che hanno ancora bisogno di quell’immagine, sorvegliante della tradizione a cui ancora sono agganciati, ma alla sola condizione che quest’ultima mantenga il loro stesso passo, seppur da posizioni dissimili e sopraelevate.