
«Parmi un assurdo che le leggi che sono l’espressione della pubblica volontà, che detestano e puniscono l’omicidio, ne commettano uno esse medesime, e, per allontanare i cittadini dall’assassinio, ordinino un pubblico assassinio», scriveva Cesare Beccaria nella sua celeberrima opera Dei delitti e delle pene, pubblicata nel 1764. Sono trascorsi più di due secoli da quando Beccaria così si espresse, eppure ancora oggi un paese libero e democratico quale gli Stati Uniti d’America prevede il ricorso alla pena capitale.
Attualmente, 22 dei 50 Stati che compongono gli USA sono abolizionisti, mentre in 12 Stati non si è assistito ad alcuna esecuzione da almeno 10 anni.
Il rapporto annuale del Death Penalty Information Center, pubblicato il 16 dicembre 2020, rivela che quest’anno con 7 esecuzioni statali si è toccato il minimo storico da quando, 37 anni fa, cinque Stati giustiziarono un detenuto ciascuno. Dati positivi, dunque, in parte dovuti al consenso sempre meno ampio mostrato dai cittadini americani nei confronti della pena di morte, in parte certamente legati alla pandemia in corso, la quale ha fatto sì che in molti Stati processi ed esecuzioni venissero sospesi.
Tuttavia, un dato in netto contrasto rispetto a questa tendenza è rappresentato dal numero di esecuzioni federali che hanno avuto luogo quest’anno: ben 10, concentrate nell’arco di soli sei mesi, da luglio a dicembre (per un totale di 17 esecuzioni, tra statali e federali, alle quali si è assistito sul suolo americano). Secondo il DPIC, per la prima volta nella storia degli USA il governo federale ha giustiziato più detenuti di tutti gli Stati messi insieme: fatto gravissimo, dinanzi al quale non possiamo restare indifferenti e da cui dobbiamo necessariamente lasciarci interrogare, soprattutto se si considerano le condizioni eccezionali nelle quali tutto ciò è avvenuto.
Le esecuzioni federali sono riprese negli Stati Uniti a partire dal luglio del 2020, quando la Corte Suprema ha di fatto accolto la richiesta avanzata il 25 luglio 2019 dal procuratore generale dell’amministrazione Trump, William Barr, non accettando i ricorsi presentati dai detenuti federali nel braccio della morte. Sappiamo infatti che, affinché un ricorso (il cosiddetto writ of certiorari) venga accettato, sono necessari i voti favorevoli di almeno quattro dei nove giudici della Corte: in questo frangente, però, soltanto le due giudici liberal Ruth Ginsburg e Sonia Sotomayor avevano espresso l’intenzione di rivedere i casi.
Così, dopo una moratoria di fatto durata 17 anni e nel mezzo di un’emergenza sanitaria che ha messo in ginocchio il mondo intero, a dispetto delle indicazioni provenienti dalla comunità scientifica, la quale invitava alla massima prudenza e ad evitare il più possibile ogni potenziale occasione di contagio, tra il mese di luglio e quello di settembre sono state eseguite sette condanne a morte. Inoltre, nel cosiddetto lame duck period, ovvero nel lasso temporale che intercorre tra le elezioni presidenziali (quest’anno tenutesi il 3 novembre) e l’effettivo insediamento del Presidente eletto nel gennaio successivo, sono stati giustiziati tre detenuti: fatto, questo, che non si verificava dal 1889, quando Richard Smith fu giustiziato nel periodo di transizione tra il primo mandato presidenziale di Grover Cleveland e la presidenza di Benjamin Harrison.
Tuttavia, da qui al 20 gennaio 2021, giorno in cui Joe Biden presterà giuramento in occasione del cosiddetto Inauguration Day, l’amministrazione Trump potrebbe sottoporre all’iniezione letale un’altra detenuta, facendo salire a 11 il numero di esecuzioni federali verificatesi durante il suo mandato: si tratta di Lisa Montgomery, condannata alla pena capitale per l’omicidio di una donna incinta all’ottavo mese, allo scopo di rapire la bambina che portava in grembo. L’esecuzione della donna, originariamente prevista per l’8 dicembre 2020, è stata rinviata al 12 gennaio 2021 dopo che i suoi avvocati si sono ammalati di Covid-19. In molti si sono rivolti a Donald Trump, esortandolo a commutare la condanna a morte di Lisa in ergastolo senza condizionale, dal momento che essa ha sempre sofferto di disturbi mentali ed è stata vittima di abusi sessuali fin dall’infanzia.
Un altro dato che bisognerebbe considerare con attenzione, infatti, sottolineato dal DPIC nel suo report di fine anno, riguarda le condizioni dei detenuti al momento in cui commisero le azioni terribili per le quali sono stati condannati. Oltre al caso di Lisa Montgomery ha fatto molto discutere l’esecuzione di Brandon Bernard, avvenuta il 10 dicembre 2020 nel penitenziario di Terre Haute, in Indiana. Bernard, ormai quarantenne, è stato condannato a morte per l’omicidio di Todd e Stacie Bagley, avvenuto nel giugno del 1999, quando aveva soltanto 18 anni. Il ragazzo aveva agito insieme ad una banda di giovani, tra i quali vi era anche Cristopher Vialva, giustiziato nel settembre del 2020: quest’ultimo aveva sparato alle due vittime, sistemate nel portabagagli di un’auto che Brandon aveva poi dato alle fiamme. Secondo l’accusa, tuttavia, Brandon non sarebbe stato imputabile di sola distruzione di cadavere, dal momento che Stacie Bagley sarebbe morta proprio in conseguenza dell’incendio da lui appiccato.
Nonostante la gravità dei reati commessi, considerata la sua giovane età e la buona condotta sempre mantenuta in carcere, dove Bernard ha studiato e messo a punto dei programmi di sensibilizzazione contro la violenza tra i giovani, i suoi legali avevano chiesto che potesse essere condannato all’ergastolo senza condizionale. A nulla però sono valse queste richieste, così come le campagne lanciate sui social e promosse da diversi personaggi pubblici, tra i quali figura la star Kim Kardashian.
Osservando i grafici prodotti dal DPIC, nonché le informazioni da esso fornite, si può facilmente comprendere come quanto accaduto in questi ultimi mesi negli USA a livello federale sia decisamente in contrasto non solo con le tendenze nazionali, ma anche con i segnali provenienti dall’opinione pubblica. Secondo i dati raccolti da Gallup Poll nel tradizionale sondaggio intitolato Americans’ support for the death penalty, sottoposto ogni anno dall’agenzia ad un ampio campione di cittadini americani e svoltosi tra il 30 settembre e il 15 ottobre 2020, i favorevoli alla pena di morte sono al livello più basso da mezzo secolo (55%), mentre i contrari sono al livello più alto dal 1966 (43%). Tuttavia, il consenso resta altissimo tra coloro che si dichiarano di orientamento politico repubblicano, rimanendo stabile al 79% dal 2016
Il più alto numero di consensi è stato raggiunto nel 1994, quando l’80% degli americani intervistati si è detto favorevole alla pena di morte per i colpevoli di omicidio. Il moltiplicarsi delle uccisioni e degli episodi di violenza nel periodo compreso tra il 1964 e il 1974, anni in cui la pena di morte era poco applicata e in cui venne poi sospesa per tutti i crimini dalla Corte Suprema (caso Furman v. Georgia, 1972), portò molti cittadini a credere al fattore della deterrenza e a guardare con favore a questa pena.

Percentuale di cittadini americani favorevoli/contrari alla pena di morte dal 1936 al 2020, secondo i dati raccolti da Gallup Poll
Nel 1976 la Corte Suprema definì la pena di morte costituzionale e ne determinò il ripristino, sospendendo successivamente a livello federale modalità quali la sedia elettrica e la camera a gas (comunque mai definite incostituzionali e attualmente in vigore in alcuni Stati) e preferendo il ricorso all’iniezione letale. Le elezioni del 1988 hanno dimostrato come, verso la fine degli anni ’80, il sostegno alla pena capitale costituisse ormai un requisito fondamentale per la vittoria del futuro Presidente: il candidato democratico Michael Dukakis venne infatti sorpassato in modo sorprendente dal repubblicano George H. W. Bush per essersi dichiarato fortemente contrario alla pena di morte.
Diversi studi sono ormai stati condotti sul presunto effetto deterrente della pena capitale, giungendo tutti alla medesima conclusione: non vi è alcuna evidenza che le esecuzioni possano influire sulla diminuzione dei reati commessi.
Secondo molti, la mancanza di un qualsiasi legame tra questi due aspetti deriva dal fatto che buona parte delle persone che commettono reati gravi lo fanno senza pensare alle conseguenze derivanti dalle proprie azioni, perché incapaci in quel momento di controllare i propri impulsi. La pena capitale non sarebbe neppure conveniente da un punto di vista economico (sempre che alla convenienza economica si possa pensare qualora sia in gioco la vita di un uomo), in quanto è stato dimostrato che il costo per l’esecuzione di un detenuto risulta più alto rispetto a quello necessario per il suo mantenimento a vita in un carcere statale: una Commissione governativa dello Stato dell’Indiana, costituita nel 2003, ha messo in evidenza come la pena di morte costi ai cittadini un terzo in più rispetto al prezzo dell’ergastolo.
Il ricorso alle esecuzioni è dunque inutile e poco vantaggioso da un punto di vista economico: soprattutto, però, esso è irragionevole, contraddittorio, forse persino controproducente, come sottolineava in pieno secolo diciottesimo Cesare Beccaria, le cui parole vogliamo ricordare ancora una volta in questo articolo in ragione della loro sorprendente attualità: «Che debbon pensare gli uomini nel vedere i savi magistrati e i gravi sacerdoti della giustizia, che con indifferente tranquillità fanno strascinare con lento apparato un reo alla morte (…)? Ah!, diranno essi, queste leggi non sono che i pretesti della forza e le meditate e crudeli formalità della giustizia; non sono che un linguaggio di convenzione per immolarci con maggiore sicurezza, come vittime destinate in sacrificio, all’idolo insaziabile del dispotismo. L’assassinio, che ci vien predicato come un terribile misfatto, lo veggiamo pure senza ripugnanza e senza furore adoprato».

