Del: 11 Gennaio 2021 Di: Erica Ravarelli Commenti: 1

Più di un milione di uiguri, una minoranza turcofona di religione musulmana che vive nella regione autonoma dello Xinjiang, a nord-ovest della Cina, vive in campi di indottrinamento e rieducazione forzata per volere del regime comunista di Xi Jinping. L’allarme è stato lanciato da inchieste giornalistiche, testimonianze e rapporti dell’Onu, che hanno evidenziato come le repressioni nello Xinjiang si siano intensificate alla fine del 2016, assumendo le caratteristiche di un vero e proprio crimine contro l’umanità. 

Xinjiang, da Internazionale.it

La presa di posizione da parte dell’Unione Europea non si è fatta attendere: nel 2018 l’allora alto rappresentante per gli Affari esteri e la Politica di sicurezza Federica Mogherini ha denunciato la violazione dei diritti umani nello Xinjiang e successivamente, il 30 giugno 2020, è stato pubblicato un documento firmato da Reinhard Bütikofer e da Evelyne Gebhardt, rispettivamente presidente e primo vicepresidente della delegazione del Parlamento europeo per le relazioni con la Repubblica Popolare Cinese. Bütikofer e Gebhardt si dichiarano «profondamente scioccati dalle recenti rivelazioni sulla massiva campagna portata avanti dal Partito Comunista Cinese per sopprimere il tasso di natalità uiguro nello Xinjiang. I report sulle sterilizzazioni forzate e sugli aborti, così come le severe sanzioni contro le violazioni delle leggi sul controllo delle nascite, sono di un’atrocità senza precedenti e confermano l’ipotesi secondo cui quello a cui stiamo assistendo può essere definito un genocidio». Anche papa Francesco, dopo anni di rapporti cordiali con la Cina di Xi Jinping, ha recentemente espresso la sua condanna nei confronti di quanto sta accadendo nello Xinjiang, definendo la minoranza uigura come un popolo «perseguitato»

Di fronte alle dure critiche, il regime comunista cinese non arretra di un solo passo, giustificando la repressione con il pretesto della lotta contro l’estremismo e il terrorismo.

Per capire come mai il regime cinese ricorra proprio a questo alibi dobbiamo risalire al 1949, quando la regione dello Xinjiang, dopo un breve tentativo di difendere la propria autonomia governativa, viene annessa alla Cina comunista, che dà il via ad una massiccia campagna di assimilazione culturale nei confronti degli uiguri. Iniziano, così, le ribellioni della minoranza di religione musulmana, che lotta per difendere la propria identità etnica e religiosa. Ciò ha scatenato la reazione violenta del regime comunista, culminata nella costruzione di campi in cui le atrocità commesse dai cinesi sono inimmaginabili: torture, prelievo di organi da persone ancora vive, controllo delle nascite tramite la sterilizzazione (temporanea o definitiva) delle donne, sfruttamento del lavoro.

Ed è qui che entrano in campo i grandi marchi di moda che tutti conosciamo: Zara, Nike, Uniqlo e molti altri brand, infatti, sono stati accusati di utilizzare cotone proveniente dalla regione dello Xinjiang, traendo così profitto dal lavoro forzato a cui gli uiguri vengono quotidianamente costretti.

La coalizione End Uyghur Forced Labour, formata da sindacati e associazioni no-profit, ha l’obiettivo di porre fine al lavoro forzato nello Xinjiang e ha lanciato un appello rivolto alle grandi aziende che operano nel campo della moda, per assicurarsi che non stiano supportando il o beneficiando del lavoro forzato a cui il popolo uiguro e altri turco-musulmani vengono costretti dal governo cinese. La campagna Abiti Puliti, che fa parte della coalizione, afferma che, in un database pubblico dell’Institute of Public and Environmental Affairs cinese, è documentata la relazione tra Inditex, colosso della moda di cui Zara è il brand di punta, e l’azienda Huafu Fashion, che possiede fabbriche accusate di sfruttare il lavoro forzato degli uiguri. 

Inoltre, secondo alcuni media come Buzzfeed, anche multinazionali tecnologiche e alimentari sarebbero coinvolte nello sfruttamento del lavoro nei campi di detenzione degli uiguri.

L’iniziativa dell’artista uiguro Yettesu, che alla fine della settimana della moda (settembre 2020) aveva affisso alcuni manifesti provocatori nel centro di Milano, si inserisce all’interno di questa campagna di sensibilizzazione: l’appello di Yettesu sembra rivolgersi sia al cosiddetto fast fashion, da cui si pretende maggiore trasparenza sulla catena di approvvigionamento, sia ai consumatori, invitati ad interrogarsi sulle anomalie legate ai prezzi stracciati degli indumenti di Zara o di altri grandi brand del settore. Le alternative ai capi di abbigliamento sporchi di sangue uiguro (e non solo) sono numerose, dai mercatini ai negozi di seconda mano, fermo restando che, molto spesso, l’acquisto sfrenato di magliette e jeans è legato più all’abitudine che a un bisogno vero e proprio: insomma, comprare meno e comprare meglio.

Uno dei manifesti affissi dall’artista Yettesu il 28 settembre 2020 a Milano, dal sito di Open
Erica Ravarelli
Studio scienze politiche a Milano ma vengo da Ancona. Mi piace scrivere e bere tisane, non mi piacciono le semplificazioni e i pregiudizi. Ascolto tutti i pareri ma poi faccio di testa mia.

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