Tra i registi da riscoprire in questo 2021 c’è sicuramente l’ungherese Kornél Mundruczó, già figura di spicco nella cinematografia europea, ma adesso, con il film distribuito da Netflix, Pieces of a Woman, scritto da Kata Wéber e prodotto da Martin Scorsese, si potrebbe anche dire autore di importante rilevanza nel panorama hollywoodiano.
Vanessa Kirby è Martha Wiess, Shia LaBeouf è Sean Carson: insieme interpretano una coppia che sta per avere la sua prima figlia e che decide, seguendo i consigli dell’ostetrica di fiducia, di far nascere la bambina in casa; qualcosa va storto e il miracolo della vita si trasforma nell’incubo della morte, quando la bambina viene a mancare dopo pochi minuti dal parto.
Il film è quindi tutto strutturato sull’elaborazione di un lutto, la messa in scena di un vero e proprio tabù difficilmente narrabile in modo così trasparente.
Perdere un figlio appena nato, vedere il proprio bambino o la propria bambina perire tra le proprie braccia, o anche semplicemente perderlo ancora in grembo, è per la madre – prima di tutto del padre – un momento impossibile da comprendere per chi non ha mai vissuto sulla propria pelle una simile esperienza.
La Wéber è brava a scrivere una sceneggiatura costellata da scene simboliche che vedono Martha come la protagonista indiscussa, è altrettanto brava Vanessa Kirby a interpretare un ruolo indiscutibilmente complicato, ma a cui dà un risvolto emotivo assolutamente coinvolgente e avvolgente.
Kirby prova dolore ed elabora un lutto sotto gli occhi di una telecamera onnisciente che palpita, e riflette tutto sullo spettatore.
Per questo Pieces of a Woman è una pellicola che si rende difficile alla visione, ma che sentimentalmente tiene attaccati dall’inizio alla fine. Vanessa Kirby è infatti depressa e oppressa dal suo compagno Shia LaBeouf, discutibilmente violento e uomo già pieno di problemi, in più entra in gioco anche il rapporto complicato tra la protagonista e sua madre (Ellen Burstyn), troppo invadente nei confronti di Martha e talmente consumata dal dolore della sua infanzia, da pensare di poter capire a fondo la figlia.
Grazie anche a questa ottima squadra di attori (Vanessa Kirby vince tra l’altro la Coppa Volpi come miglior attrice femminile a Venezia77), il film è molto efficace nel suo intento, tremendamente reale forse, ma assolutamente emozionante e sensibile a un tema difficile e ambizioso.
C’è quindi tutta la qualità drammaturgica di Wéber, ma come anche tutta quella registica di Mundruczó: dal prologo del parto, un piano sequenza di ventitré minuti pieni, dove la camera si comporta come lo spettatore incomodo capitato erroneamente in una situazione intima, in cui a volte curiosa ma in altri casi tentenna e rimane in disparte, facendo semplicemente intuire quello che sta succedendo; alla scenografia di Boston, che parla da sola, nella quale si intravede la Budapest del regista, fredda ma accogliente, con la metafora, anche troppo spiattellata sullo schermo, della costruzione di un ponte sul fiume che percorre la città.
Il decorso della storia copre praticamente una decina di mesi, tempo nel quale il ponte, elemento architettonico simbolo dell’unione tra culture e mentalità diverse, viene concluso.
Un ponte che in questo caso simboleggia anche il lutto, il suo trascorso, il suo passato ma anche il futuro: ci ha messo tanto tempo per diventare operativo, ha richiesto sacrifici e giorni di lavoro sotto le intemperie del meteo, invece poi, una volta finito, diventa un punto di passaggio da una vita a un’altra, con la possibilità di tornare indietro, certo, ma nostalgicamente e non senza fatiche.
Insomma, alla fine hai accettato il dramma, la vita continua e ciò che è stato rimarrà con te, in pace e per sempre.