Del: 20 Gennaio 2021 Di: Martina Di Paolantonio Commenti: 0
Pillole di economia. La web (o digital) tax

Le tematiche di carattere economico rientrano senza dubbio nel ventaglio di argomenti spesso difficili da comprendere a fondo per chi non ne ha mai approfondito lo studio. Abbiamo deciso di dare vita a questa rubrica nella quale cercheremo di sviscerare, con il linguaggio più semplice e accessibile possibile, vari temi economici legati all’attualità. A questo link trovate le scorse puntate.

Web Tax, o Digital Tax, che dir si voglia, è un termine che popola gli incubi dei grandi colossi del mondo digitale, da Google a Facebook. La parte migliore di possedere un’azienda che opera digitalmente, sostanzialmente all’interno di uno spazio non definibile a livello spaziale, è che si può scegliere dove collocare le proprie sedi amministrative, sedi dalle quali poi verranno pagate le tasse, anche se in realtà si opera in tutto il mondo. Naturalmente, quindi, si sceglierà il posto dove la politica fiscale permetterà di pagare di meno. L’arrivo della pandemia, poi, ha favorito l’e-commerce, e in generale le attività online, le quali sono cresciute molto, aumentando di conseguenza i profitti di chi le offre, che non paga imposte adeguate ai volumi delle entrate. In generale, la tassa digitale è stata una protagonista della politica economica europea nel 2020, e si prospetta che avrà una certa importanza nel 2021.

Come mai ce n’è bisogno? Cosa è stato fatto in proposito nell’ultimo anno?

Per quanto riguarda la definizione di web tax, si tratta di una tipologia di imposta per le aziende che lavorano in campo digitale, che dovrebbe essere pagata nei paesi in cui effettivamente operano.

La discussione sulla web tax, molto accesa dal momento in cui ci si è resi conto dell’ampiezza dell’economia di internet, è tornata d’attualità a inizio gennaio 2020 grazie all’OCSE. L’Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo Economico ha infatti proposto, per mettere un punto alla questione, il cosiddetto Unified Approach. L’approccio prevede non venga più presa in considerazione la singola “residenza”, ma l’intero gruppo di riferimento e il suo bilancio consolidato (ossia il bilancio dell’intero gruppo, e non solo delle singole imprese che lo compongono); su questa base si raggiunge poi una soluzione negoziata sulla tassazione dei profitti tra lo stato di residenza e quelli in cui opera.

Questa soluzione globale è praticamente utopica, perché ovviamente ogni singolo paese vorrà tutelare al meglio la propria realtà, per cui Stati come Irlanda, Lussemburgo e USA, che attualmente sono paesi “residenti” per via della loro favorevole politica fiscale, si sentirebbero danneggiati. A riprova di questa difficoltà nel raggiungere gli accordi c’è il fatto che gli Stati Uniti, terra natale per Google, Facebook, Apple, Microsoft (insomma, dei grandi interessati da questa tassa), a giugno hanno avviato un’inchiesta contro alcuni Paesi che avevano già approvato una tassa digitale nazionale, tra cui l’Italia, manifestando i timori dell’ormai ex-Presidente Trump, preoccupato da una penalizzazione secondo lui ingiusta, delle società americane.

La presa di posizione americana ha messo un freno alle trattative al riguardo, e alla quale la Francia ha risposto a modo suo a fine novembre: avrebbe infatti iniziato a domandare a fine novembre un’imposta sui ricavi totali alle grandi marche del web, preventivando di raccogliere in questa maniera fino a 400 milioni di euro entro il 2020. Questa mossa è stata generalmente ben vista dall’Europa, che ha in mente una norma per la tassazione delle big tech comune ai Paesi membri già all’inizio dell’autunno, prima della decisione francese, in sostituzione delle singole decisioni dei Paesi membri che alla lunga potrebbero diventare ingestibili sul piano internazionale. Una digital tax europea prevedrebbe però un’armonizzazione fiscale alla quale non tutti i paesi (come Irlanda e Lussemburgo) parteciperebbero volentieri, nonostante questo non sia un accordo del tutto irraggiungibile, e per inizio 2021 si attende una proposta della Commissione.

Perché è così urgente raggiungere un accordo?

Perché le imprese digitali costituiscono sicuramente una novità nell’ambito fiscale, e la mancanza di una regolamentazione condivisa porterebbe i Paesi a prendere decisioni autonome su come comportarsi in merito, decisioni che possono portare a ritorsioni (come l’imposizione di dazi) e a vere proprie guerre commerciali che comporterebbero un calo del PIL globale fino all’1%, secondo le stime dell’OCSE.

A questo punto, quindi, una soluzione globale di armonizzazione finanziaria per quanto riguarda queste imprese “apolidi” sembra impraticabile, soprattutto per l’opposizione USA, per la quale l’insediamento di Biden non potrebbe necessariamente tradursi in una maggiore disponibilità a vedere le imprese made in USA tassate nei Paesi in cui operano. È molto più probabile che il 2021 vedrà una soluzione europea, la quale segnerebbe un grande passo nel processo di integrazione e un grande aiuto per il bilancio europeo alle prese con la crisi provocata dalla pandemia.

Martina Di Paolantonio
Dal 1999 faccio concorrenza all'agenzia di promozione turistica abruzzese, nel tempo libero mi lamento per qualsiasi cosa.

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