Oggi ricorre il centenario dalla nascita del Partito comunista italiano. Inizialmente vittima della repressione del regime fascista, fu poi protagonista della Resistenza e della ricostruzione del nostro Paese, attraverso i lavori della Costituente e dei governi di unità nazionale. Nel corso della Prima Repubblica fu stabilmente la seconda forza politica, nonchè il Partito comunista più forte d’Europa. Per questo oggi raccontiamo la sua nascita all’interno dello spazio di Radici. A questo link trovate gli articoli precedenti della rubrica.
Nell’ottobre del 1917, in piena Prima guerra mondiale, la Rivoluzione russa sconvolse il mondo, suscitando in taluni preoccupazione e in altri un forte senso di ammirazione e una voglia di emulazione. Nelle idee di Marx la rivoluzione doveva estendersi in tutto il mondo, per questo su impulso di Mosca venne fondata nel 1919 l’Internazionale Comunista, con lo scopo di favorire la formazione di Partiti comunisti in tutto il mondo e di esportare l’ideale rivoluzionario, anche se per alcuni si trattava piuttosto di una mossa difensiva: spezzare l’isolamento russo con partiti pronti a mobilitarsi nei paesi capitalisti in caso di aggressione contro il paese della Rivoluzione d’ottobre. Nel secondo congresso del 1920 l’Internazionale aveva stabilito ventuno punti da rispettare per l’ammissione e uno di questi era l’obbligo di allontanare gli esponenti riformisti dal partito, giudicati controrivoluzionari dai bolscevichi.
All’interno del Partito socialista italiano, la corrente maggioritaria, ovvero la massimalista guidata da Giacinto Menotti Serrati, esprimeva non poche riserve ai diktat di Mosca. Innanzitutto erano contrari all’espulsione della corrente riformista capeggiata da Filippo Turati, ma anche avversi a modificare il proprio nome in “Partito comunista” e arrivarono anche a mettere in discussione la volontà dei bolscevichi a ergersi come dirigenti della rivoluzione mondiale. La verità è che la netta maggioranza del Partito socialista italiano non lavorava per una rivoluzione immediata, non aveva sfruttato l’occasione del Biennio rosso e continuava a portare avanti una politica volta a migliorare gradualmente le condizioni dei lavoratori, anche se non rinunciava agli slogan rivoluzionari.
Per tutte queste ragioni nell’ottobre 1920 si costituì all’interno del partito una fazione comunista, le cui posizioni erano più allineate ai compagni rivoluzionari russi e il cui pensiero verso la situazione sopradescritta è ben rappresentato da queste affermazioni di Antonio Gramsci: «Non esiste la condizione base per fare esplodere la rivoluzione: le centinaia di migliaia di lavoratori in lotta nei campi e nelle fabbriche seguono con fiducia le direttive dei sindacati che non puntano alla rivoluzione, ma a migliorare le condizioni di vita delle masse, lo stesso obiettivo, del resto, perseguito dagli amministratori socialisti dei comuni e delle province rosse. Resta quasi da chiedersi a che servissero tante parole, gli slogan, gli appelli dai toni rivoluzionari così accesi che per due anni la maggioranza massimalista del Psi indirizza al paese».
In questo clima di tensione si arrivò al XVII Congresso del Psi che aprì le porte il 15 gennaio 1921 a Livorno al Teatro Goldoni. Nonostante l’atmosfera fosse tesa, si era praticamente certi dei risultati che avrebbe portato il Congresso. Un fatto esemplificativo fu la presenza di due ospiti d’eccezione: i rappresentanti del comitato esecutivo dell’Internazionale Kabakciev e Rakowski, i quali dichiararono il sostegno alla mozione comunista, che si allineava senza alcun indugio ai ventuno punti dell’Internazionale e si proclamava a favore dell’espulsione dei riformisti. Dall’altra parte la mozione degli unionisti di Serrati sosteneva la necessità di mantenere saldo e unito il partito, in quanto sottolineava le differenze sostanziali tra la situazione russa e quella italiana. Infine i riformisti, con la loro mozione, respinsero gli attacchi da parte dei comunisti e sottolinearono l’importanza della presa di potere per via legale. I delegati del congresso infine, il 21 gennaio, assegnarono rispettivamente su 172.487 suffragi, 98.028 voti agli unitari di Serrati, 58.783 ai comunisti di Gramsci, Bordiga e Terracini e 14.695 ai riformisti di Turati.
La vittoria degli unionisti portò inevitabilmente alla scissione, che fu annunciata immediatamente da Bordiga e che portò alla nascita del Partito comunista italiano.
«La frazione comunista dichiara che la maggioranza del Congresso col suo voto si è posta fuori dalla Terza Internazionale. I delegati che hanno votato la nostra mozione abbandonino la sala. Sono convocati alle 11 al Teatro San Marco per deliberare la costituzione del Partito comunista, sezione italiana della Terza Internazionale».
Tuttavia i congressisti nei loro discorsi, nelle loro disamine dottrinarie e nel loro scontro dialettico non avevano preso in considerazione un pericolo incombente, quello fascista, e gli avevano dato una scarsa importanza, trattando solo in parte il problema dello squadrismo. La scissione ebbe l’effetto di indebolire ancora di più la sinistra italiana e la rese cieca e quasi innocua nei confronti dell’emergere di una montagna nera, che da lì a poco prese con la forza il potere gettando l’Italia in un periodo cupo destinato a durare vent’anni.
Bibliografia:
Simona Colarizi, Storia del Novecento italiano.
Paolo Buchignani, Ribelli d’Italia.
Ezio Mauro, La dannazione.
«Corriere della Sera», 21 gennaio 1921.
«Corriere della Sera», 22 gennaio 1921.