Del: 28 Febbraio 2021 Di: Jessica Rodenghi Commenti: 0
Contratti di lavoro nel food delivery, è tutto in regola?

La Procura di Milano sta svolgendo un’indagine fiscale per determinare la legalità dei contratti nelle aziende di distribuzione dei prodotti di ristorazione (Just Eat, Deliveroo, Uber Eats e Glovo-Foodinho), al momento vi sono sei persone indagate persone per violazione della normativa sulla sicurezza e tutela nei posti di lavoro.

La notizia arriva come una bomba tra i rider, che finalmente sembrano vedere la luce alla fine del tunnel. Deliverance Milano ne parla come di un duro colpo alla narrazione di chi abusa del lavoro occasionale e dei diritti dei lavoratori.

Per lavorare nel food delivery basta avere una bicicletta, uno smartphone e ritirare il kit in azienda.

L’app informa il rider sulle fasce orarie disponibili, questi si iscrive, prenota la sessione e parte per la consegna. Ci sono degli orari di prenotazione, l’algoritmo sceglie in base al punteggio ottenuto con le consegne quando permettere al rider di prenotarsi: chi ha un punteggio più alto (si ottiene soltanto con le maggiorazioni date nei weekend e negli orari serali) vi accede prima. La narrazione delle aziende è sempre stata quella del lavoro da sogno, in cui si può decidere da sé quando e quanto lavorare, si ha la possibilità di guadagnare molto oppure si può mantenere il delivery come secondo lavoro per arrotondare.

Riprova di tale narrazione era stata la pubblicazione su La Stampa dell’intervista a Emiliano Zappalà, commercialista al quale le restrizioni Covid avevano impedito di mantenere aperto lo studio e che quindi si sarebbe dato al food delivery facendo 100 km al giorno in bicicletta e arrivando a guadagnare anche 4000 euro l’anno. Peccato che l’articolo sia stato smentito, l’intervistato risponde a nome Emanuele, non aveva uno studio di commercialista, ma era stato assunto in prova per uno studio di buste paghe, e decisamente non percorreva 100 km al giorno in bicicletta.

La situazione, quindi, è ben diversa da quanto le aziende prospettano. I rider lamentano da tempo di trovarsi in condizioni di lavoro precarie, con paghe ridotte al minimo, sottolineano la mancanza di previdenza sociale e nessun sostegno per quanto riguarda malattia, ferie, infortuni. Il problema è che sono ancora considerati lavoratori autonomi sulla carta, cioè dei lavoratori che saltuariamente collaborano con la piattaforma: il punto è che molti dei rider vivono di questo impiego e la storia del lavoretto per arrotondare si allontana sempre di più dalla realtà.

L’Italia è uno dei primi Paesi a prendere una posizione in questa discussione, tanto che molti altri stanno prendendo esempio dai nostri provvedimenti.

Nel Regno Unito si è giunti a dichiarare che i rider che utilizzano l’app di Uber sono suoi lavoratori e quindi devono poter accedere alle misure di assistenza che un qualsiasi dipendente ha. Negli USA, in California, è stata promulgata l’Assembly Bill (AB5) nel gennaio 2020, legge che classifica i rider come lavoratori dipendenti. In Australia, invece, spopola la piattaforma Doordash, che addirittura imporrebbe ai rider l’utilizzo di una red card, che chiederebbe loro di prender contatti con il ristorante, pagarlo direttamente e poi prendersi cura del cliente e della consegna. Una manovra che pone chi consegna in una posizione rischiosa, esposto alle mille possibilità di venir derubato del caso.

Dei precedenti si possono trovare anche in Italia. Nel 2016 a Torino le piazze erano occupate dai rider di Foodora, che protestavano contro la paga e le condizioni di lavoro. Il risultato fu che a sei di questi dipendenti non venne rinnovato il contratto, ma nel 2020 ottennero ferie, previdenza e limiti agli orari di lavoro. Sostanzialmente, però, era stato un caso isolato e non aveva fatto molto rumore. Nel 2018 anche l’ex Ministro del lavoro Luigi di Maio aveva tentato di aprire un dialogo in questo senso, infatti aveva aperto un tavolo di consultazione con le aziende di delivery per discutere delle tutele dei lavoratori. Mesi dopo i rider lamentavano di come pareva che il ministro «se ne fosse dimenticato».

Più recente è stato il caso di Uber eats, azienda del food delivery commissionata nel Maggio 2020 per caporalato. Questo significa che l’indagine voleva appurare se avvenisse una forma illegale di reclutamento e organizzazione della mano d’opera, che avrebbe dato il ruolo di “caporali” ai datori di lavoro, i quali avrebbero imposto condizioni di lavoro al pari dello sfruttamento. A quanto risulta Uber eats trovava personale proveniente da centri di accoglienza, persone in attesa di uno status che gli permettesse di godere di qualche diritto, per poi imporre delle condizioni di lavoro miserabili (basti pensare alla paga oraria di tre euro).

Le aziende hanno risposto alle proteste con la messa in vigore, dal 3 novembre 2020, di una nuova formula contrattuale nazionale per i rider dei servizi di delivery, il tutto a opera dell’associazione Assodelivery, che coordina Deliveroo, Glovo, Just Eat, Uber Eats e Social food. Le aziende s’impegnano a pagare una maggiorazione in casi di lavoro notturno, festività e maltempo, aggiungono coperture INAIL per gli infortuni, devono fornire dispositivi di protezione individuale ai rider e tengono dei corsi sulla sicurezza in strada.

I rider, tuttavia, hanno protestato nuovamente in diverse città d’Italia nei giorni successivi all’entrata in vigore di questo contratto, perché le aziende ne chiedevano la firma pena l’esclusione dal servizio e soprattutto non c’era stata alcuna svolta, in quanto i rider venivano considerati ancora lavoratori autonomi. D’altro canto, il contratto dichiara che le aziende non si prendono la responsabilità di coordinare le attività dei rider, e per questo possono considerarli lavoratori indipendenti.

Le ultime notizie sembrano però prospettare un cambio di direzione.

In questi giorni, infatti, le aziende del food delivery hanno 90 giorni di tempo per regolarizzare i contratti di oltre 60mila lavoratori, e dovranno anche pagare delle ammende di 733 milioni di euro, che servirebbero a estinguere il reato. Si è quindi reso chiaro che i rider sono lavoratori subordinati e che dichiararli “autonomi” non è legale. È un punto di svolta per una categoria che da tempo è rimasta invisibile, poi sfruttata, poi zittita e ora può finalmente vedersi garantiti dei diritti che non dovrebbero essere messi in discussione.

Durante i lockdown e le zone rosse i rider sono stati e sono fondamentali, perché sono fra i pochi a consegnare i prodotti di ristorazione e così facendo hanno permesso a molte aziende del settore di non chiudere. «È fondamentale, quindi, che si abbia un approccio giuridico» anche nei loro confronti, perché sono lavoratori come tanti altri. Così si è espresso il Procuratore di Milano Francesco Greco in conferenza stampa aggiungendo che i rider «non sono degli schiavi, ma cittadini che hanno bisogno di una tutela giuridica».

La lotta dei rider può dirsi terminata? Di questo non abbiamo certezze, ma sappiamo che ricorderanno molto bene questi giorni di svolta.

Articolo di Jessica Rodenghi

Jessica Rodenghi
Jessica, attiva nel mondo e nelle società, per fare buona informazione dedicata a tutti e tutte.

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