Del: 22 Febbraio 2021 Di: Redazione Commenti: 0
Gli oceani dicono basta al rumore umano

Non assoceremmo mai l’inquinamento acustico agli oceani, quanto piuttosto all’habitat terrestre che ci circonda. Sbagliamo: i mari e gli oceani sono costituiti da un paesaggio sonoro che risulta essenziale per gli animali che lo popolano, utile per cacciare, comunicare tra di loro e soprattutto per sfuggire da pericoli imminenti. Molti esseri viventi oceanici sono infatti dotati di un udito particolarmente sviluppato che funge loro da bussola, ma se il volume dell’attività umana è troppo alto, si ritrovano in balia delle circostanze più inaspettate. L’inquinamento prodotto dall’uomo ha effetti sull’intera esistenza della popolazione marina fino a provocarne la morte; basti pensare alla pesca, alla navigazione, alle spedizioni marittime e alla costruzione di infrastrutture. La biodiversità oceanica si trova in costante bilico e compromessa non solo dall’inquinamento ambientale ma anche da quello acustico.

A partire dalla seconda metà del Novecento gli scienziati hanno rivolto la loro attenzione ai suoni degli oceani tramite degli idrofoni – microfoni utilizzabili sott’acqua con lo scopo di ascoltare i suoni sottomarini – prelevando informazioni importanti. Negli anni Sessanta il biologo statunitense Roger Payne portò alla luce i “canti “delle megattere incorporandoli nel disco Songs Of The Humback Whale e facendo comprendere la malvagità della caccia alle balene all’opinione pubblica. Da quel momento in poi sono stati molti i biologi che si sono messi al servizio delle grandi distese blu.

Nell’illuminante articolo della rivista «Science», intitolato The soundscape of the Anthropocene ocean, ovvero “Il paesaggio sonoro dell’oceano dell’Antropocenesi” si mostrano le conseguenze dell’inquinamento acustico. Antropocene è la nomenclatura che molti studiosi adottano per descrivere l’attuale era geologica, cominciata quando le attività umane hanno iniziato a modificare l’ambiente terrestre, con il riscaldamento globale e non solo. Ben 25 autori di tutto il mondo si sono resi partecipi e sotto la guida di Carlos Duarte, ecologo marino dell’Università Re Abdullah per la Scienza e la Tecnologia dell’Arabia Saudita, hanno passato in rassegna più di diecimila studi diversi sugli effetti dell’inquinamento acustico prodotto dalle persone sulla vita negli oceani.

Secondo l’articolo, i rumori prodotti dall’uomo avrebbero un particolare impatto funesto sui mammiferi marini tra cui balene, delfini e foche e infatti diversi animali marini si sono trovati costretti a adattarsi, allontanandosi dunque dalle fonti di disturbo, tra cui le stesse balene che evitano le principali rotte di navigazione e i banchi di pesci che riescono ad allontanarsi dal rumore di un’imbarcazione che si avvicina. Alcuni animali però non hanno modo di spostarsi molto: è il caso dei cetrioli marini, che vivono sui fondali e si muovono molto lentamente.

Ci sono poi casi in cui certi rumori prodotti dalle attività umane non sono temporanei, ma permanenti: possono quindi spingere gli animali ad abbandonare la loro casa in maniera definitiva. Come nel caso delle isole dell’arcipelago Broughton, nell’ovest del Canada, dove si trovano molti allevamenti di salmoni. In passato, per tenere lontane le foche che se ne cibavano, gli allevatori adottarono dei dispositivi che producono dei rumori per loro disturbanti. Ma l’allontanamento a lungo termine delle foche causò il declino della locale popolazione di orche che le cacciava. Solo dopo la rimozione dei dispositivi il numero di foche e quindi di orche tornò ad aumentare.

Secondo gli autori dell’articolo però non bisogna allarmarsi eccessivamente anche perché quello acustico è un tipo di inquinamento più facile da ridurre rispetto a quello atmosferico o idrico. Steve Simpson, biologo marino dell’Università di Exeter ha dichiarato al «New York Times»:

«Il rumore è più o meno il problema più facile da risolvere negli oceani. Sappiamo esattamente cosa lo causa, sappiamo dov’è e sappiamo come fermarlo».

Molte soluzioni all’inquinamento acustico, infatti, esistono già e sono anche piuttosto basilari: basterebbe far rallentare alcune navi, modificare rotte di navigazione in modo da non avvicinarsi troppo a certe aree dell’oceano e cambiare le eliche che fanno più rumore con altre più silenziose, che esistono già. Un’altra tecnologia già disponibile che si potrebbe usare di più sono dei sistemi isolanti da applicare ai battipali, le macchine che si usano per piantare i pali sui fondali.

La pandemia ha causato, tra le altre cose, una riduzione degli scambi commerciali marittimi; ha dunque ridotto il rumore causato dalle attività umane nei mari. Alcuni ricercatori hanno cercato di capire se gli animali marini ne abbiano tratto beneficio: ad esempio, la biologa Christine Gabriele ha stimato che nella Glacier Bay, in Alaska, il rumore si sia praticamente dimezzato rispetto all’anno precedente e le megattere sono tornate a spostarsi in zone precedentemente molto trafficate. Anche in altre parti del mondo mammiferi marini e squali sono tornati a popolare zone dove in precedenza era raro avvistarli. Per Carlos Duarte significa che basterebbe fare alcuni piccoli aggiustamenti per il rumore e gli animali si riprenderebbero immediatamente.

Nei prossimi anni, con la ripresa dei commerci, è probabile che faremo sempre più rumore nei mari e per questo molti scienziati stanno pensando di migliorare le tecnologie volte a favorire la salvaguardia oceanica. Bisogna tenere in considerazione che attualmente gli accordi internazionali per la salvaguardia degli ecosistemi marini non tengono conto dell’inquinamento acustico e del suo impatto sugli ecosistemi oceanici. Gli autori dell’articolo sperano che il loro lavoro faccia sì che in futuro questo aspetto non venga trascurato.

Articolo di Gaia Iamundo.

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