Analfabetismo funzionale, di ritorno e analfabetismo strumentale. Sono tutti termini che la lingua italiana distingue per un unico fenomeno: la mancanza della capacità di saper leggere e scrivere che, in inglese si traduce literacy. Vittoria Gallina, una delle più autorevoli studiose del fenomeno di dealfabetizzazione, do definisce questo vocabolo «uno strumento moltiplicatore di effetti che danno potere ai cittadini del mondo e li rendono capaci di contribuire, con consapevolezza e responsabilità, alle società di riferimento».
Parafrasando, si può sostenere che saper leggere e scrivere significa esercitare il proprio essere cittadini.
Non è un caso che uno studio governativo del 1911 sull’analfabetismo in Italia, a fronte della neonata legge elettorale Giolitti atta ad estendere la quota di popolazione votante, evidenzi come la partecipazione di analfabeti potesse invalidare i risultati delle elezioni. In tal proposito il Presidente del Consiglio Giovanni Giolitti definì «di capitale importanza assicurare che l’elezione rappresenti la genuina volontà degli elettori, non falsificata da frodi, corruzioni o violenze: a tale fine proporremo provvedimenti coordinati con l’ampliamento del suffragio».
Allo stesso modo, una delle prime preoccupazioni della neonata Repubblica Italiana fu proprio la lotta all’analfabetismo. Nel 1947 fu fondata l’Unione Nazionale lotta all’analfabetismo (Unla) per combattere quel dato emerso dal censimento di quattro anni più tardi: nel 1951 ben il 13% dei cittadini italiani si firmava con una croce, mentre il 59,6% non aveva conseguito la licenza elementare. Dati preoccupanti per una Repubblica a suffragio universale, che rischiava di incorrere nel pericolo che Giovanni Giolitti, quarant’anni prima, aveva descritto. In pochi anni, vennero istituite collaborazioni con le scuole reggimentali grazie a cui ogni cittadino italiano maschio sottoposto alla leva militare avrebbe imparato a leggere e scrivere.
Di grande successo fu il programma televisivo di Alberto Manzi, Non è mai troppo tardi, prodotto Rai in collaborazione con il Ministero della Pubblica Istruzione, che andò in onda dal 1960 al 1968. Grazie alle lezioni a distanza, quasi un milione e mezzo di italiani riuscì ad ottenere la licenza elementare; un progetto di una portata internazionale, imitato poi da ben 72 Paesi. Se, da allora, si è registrato un rapido calo dell’analfabetismo strumentale, cioè il possesso degli strumenti base di lettura e scrittura (nel censimento del 2011, gli analfabeti strumentali corrispondono all’1,1% degli italiani), non si può essere confortati dai dati dell’analfabetismo funzionale. Il rapporto Piaac-Ocse (l’ocre è l’Organizzazione internazionale per la Cooperazione e lo Sviluppo economico) definisce un analfabeta funzionale come colui che non è in grado di «comprendere, valutare, usare e farsi coinvolgere con testi scritti per intervenire attivamente nella società, per raggiungere i propri obiettivi e per sviluppare le proprie conoscenze e potenzialità». Secondo un’indagine della stessa Piaac-Ocse, il 28% della popolazione italiana compresa tra i 16 e i 65 anni è identificabile come analfabeta funzionale; si tratta di uno dei dati più alti d’Europa, superato solo dalla Turchia (47%).
Si tratta un dato destinato a non diminuire, soprattutto a seguito dell’emergenza sanitaria che ha sconvolto il sistema scolastico per tutto il 2020. Non è un problema solo italiano: secondo l’Unesco, durante la pandemia, le scuole sono rimaste chiuse in 190 diversi Paesi intorno al globo, determinando uno stop per il 91% della popolazione studentesca mondiale. In un articolo del Cision PR Newswire si stima più di un bilione di studenti fuori dalle scuole nel 2020, un dato che potrebbe scatenare una tra più violente crisi dell’educazione nella storia. Questa è una tesi di Andrew Key, Ceo della World Literacy Foundation: «Stiamo assistendo ad un rapido calo degli standard di alfabetizzazione e, sfortunatamente, molti bambini che non torneranno nelle loro scuole potrebbero trovarsi di fronte ad una carenza per tutta la vita. Le capacità di lettura sono, infatti, un fattore determinante per il futuro e il successo accademico. Quali sono le conseguenze dell’analfabetismo? Povertà, disoccupazione, problemi economici e sociali».
La chiusura delle scuole non ha solo effetti sul lungo termine, ma anche nell’immediato.
Vi è un altro problema, l’ennesimo, che prende il nome di “analfabetismo di ritorno”. A parlarne è Giuliana Ammannati, pedagogista clinico Anpec, in una lettera a Orizzontescuola: «La didattica a distanza funziona solo per gli alunni più capaci e più motivati ad apprendere. Sono studenti desiderosi di scoprire la conoscenza della realtà e del mondo che li circonda». Secondo l’esperta, questi studenti sono già ben inseriti in un contesto amicale, familiare e sociale, che alimenta la loro capacità di orientarsi nel proprio studio. «La didattica a distanza – continua – esige dagli alunni una serie di prerequisiti, che da soli, costituiscono, in parte, i grandi obiettivi della formazione stessa. Ma gli alunni che hanno bisogno di altri tempi, per raggiungere certi traguardi, quelli con altri ritmi e maggiori difficoltà, quelli che sono disorientati davanti alla comprensione di un testo e, pertanto, hanno necessità di un supporto a loro più idoneo, che fanno davanti al computer?».
Per questi studenti, il rapporto relazionale tra coetanei e con i docenti è determinante. Uno studente non motivato nell’apprendimento che non eserciti questo confronto con l’ambiente scolastico potrebbe regredire nella capacità di utilizzare il linguaggio scritto per formulare e comprendere il messaggio veicolato; questo farebbe di lui un “analfabeta di ritorno”. «Dunque la didattica a distanza – continua la dottoressa Ammannati – se improvvisata, determinerà, purtroppo, il fallimento scolastico per molti e alimenterà a dismisura, la dispersione e l’analfabetismo di ritorno. Fra un anno i docenti si troveranno davanti uno scenario di analfabetismo, di oblio delle conoscenze parzialmente acquisite o di abbandono scolastico».