Del: 30 Marzo 2021 Di: Chiara Di Brigida Commenti: 0

John F. Kennedy diceva che la parola crisi, scritta in cinese, è composta da due caratteri, di cui uno rappresenta il pericolo e l’altro l’opportunità. Di certo la parola opportunità suona assurda dal mezzo del tunnel buio in cui ci troviamo, eppure, da un punto di vista prettamente economico, è innegabile che potrebbero aprirsi delle prospettive interessanti.

In un’ampia inchiesta pubblicata a inizio marzo il settimanale The Economist ha affrontato l’argomento. È risaputo che le crisi rivelano punti di forza e debolezze delle società e stimolano un pensiero critico su come possano, e debbano, essere organizzate. In particolare, la pandemia ha portato a rivalutare la distribuzione del rischio tra gli individui, i datori di lavoro e lo Stato. Nel caso di una crisi improvvisa, chi tra questi ultimi dovrebbe sopportarne le conseguenze negative? Già nel 1990 il sociologo Gosta Esping-Andersen aveva individuato tre differenti modelli di welfare: quello liberale dei paesi anglosassoni, dove il rischio restava allocato sui singoli individui e lo Stato aveva un ruolo marginale; quello conservatore dei paesi dell’Europa continentale, dove lo Stato e i datori di lavoro avevano un ruolo di supporto maggiore e, infine, quello socialdemocratico tipico dei paesi scandinavi, caratterizzato da una protezione universale degli individui. 

Nell’ultimo anno abbiamo assistito ovunque a un’espansione incredibile del welfare state, cioè di quell’insieme di politiche pubbliche con cui lo Stato fornisce ai propri cittadini protezione contro rischi e bisogni prestabiliti, pari soltanto a quella che si verificò in Europa dopo la Seconda guerra mondiale. I governi dei vari paesi hanno destinato ingenti somme di denaro al finanziamento di misure di contrasto alla crisi economica, prime fra tutte i numerosi sussidi e aiuti alla popolazione.

Questo porta a interrogarci sul futuro del welfare state e sulle sue trasformazioni.

Si tratta di quesiti più che mai attuali se si considera che contemporaneamente alla pandemia i cittadini hanno iniziato a domandare a gran voce reti di protezione più forti contro le conseguenze negative della crisi.

Del resto, che il welfare state avesse bisogno di modernizzazione era evidente anche prima della pandemia: secondo l’Edelman Trust Barometer, importante indagine mondiale che studia la fiducia dei cittadini nel governo e nell’economia, nel 2019 la metà della popolazione dei 26 paesi analizzati riteneva che il sistema di protezione dei cittadini stesse fallendo.

In generale si possono distinguere quattro differenti forme di welfare nella storia. Inizialmente questo era concepito solamente come rimedio contro la povertà attraverso la redistribuzione; dopo la Seconda guerra mondiale assunse invece la forma di un’assicurazione sociale universale, ovvero riservata a tutti i cittadini, per proteggersi dalle conseguenze negative di crisi improvvise. Tuttavia, l’espansione post bellica del welfare terminò con la stagnazione (mancanza di crescita dell’economia in termini reali) e l’inflazione (aumento generale dei prezzi) degli anni Settanta: questo portò a una sua nuova evoluzione, diretta a immettere più persone possibili nel mercato del lavoro. Fu in questa fase che gli aiuti alla popolazione divennero sempre più scarsi, a fronte di maggiori incentivi lavorativi: i destinatari del welfare vennero additati come approfittatori e misure che prima erano universali furono subordinate a una serie di condizioni (ad esempio vennero concesse solo alle fasce in assoluto più povere della popolazione). La maggior parte dei paesi a partire dagli anni Ottanta ridusse sempre di più l’intervento statale in modo da tornare ad allocare il rischio (e dunque le conseguenze negative di possibili crisi) sugli individui.

Una brusca – e straordinaria – inversione di marcia rispetto a questa tendenza è stata compiuta nel 2020, con l’avvento della crisi causata dalla pandemia. I governi si sono affrettati nell’inviare sussidi alla popolazione e hanno incrementato la generosità delle misure di supporto economico, destinando a ciò complessivamente il 13,5% del PIL globale. Ma non basta: tutto ciò induce anche a ripensare la struttura del welfare. 

Negli ultimi vent’anni il mercato del lavoro si è polarizzato, con l’aumento di lavori altamente qualificati e poco qualificati a scapito delle mansioni con qualifica media, e contemporaneamente si è realizzato un aumento sempre maggiore di figure, come i lavoratori part-time e i liberi professionisti, storicamente trascurate dai sistemi di protezione sociale. Tali fasce della popolazione questa volta hanno ricevuto assistenza e supporto. 

Parallelamente all’ampliamento dei destinatari del welfare corre la necessità di implementarne le modalità: non deve cambiare soltanto il “chi”, ma anche il “come”. Un alto numero di cittadini da supportare presuppone necessariamente un sistema di protezione rapido e flessibile, così da assicurare un aiuto concreto e incrementare la fiducia nel sistema. La spesa sociale deve arrivare velocemente e automaticamente a coloro che ne hanno bisogno e i governi devono trovare dei meccanismi che possano proteggere il più efficacemente possibile la popolazione contro gli sbalzi di reddito e la disoccupazione: il primo passo per raggiungere questi obiettivi è certamente rendere i vecchi sistemi burocratici più efficienti attraverso la tecnologia. 

La storia suggerisce che gli aumenti nella spesa sociale di rado spariscono interamente una volta superata la crisi.

Il punto interessante sarà individuare cosa rimarrà. Alcuni programmi di supporto sono già stati dismessi, altri invece sono stati implementati. Quel che è certo è che la crisi economica ha avuto – e avrà anche in futuro – un eccezionale impatto sul modo di concepire, e di attuare, il sistema del welfare. L’opinione pubblica ora vede con maggiore favore la possibilità che il rischio sia sopportato dallo Stato e dai datori di lavoro a beneficio dei singoli individui: i governi dei diversi paesi hanno dimostrato che possono attutire le conseguenze della crisi e in questo senso il welfare diviene un potente mezzo per assorbire gli shock dei periodi di instabilità. 

Le sfide per il futuro sono molte. Il cambiamento climatico, l’innovazione tecnologica, i mutamenti nel mercato del lavoro e le oscillazioni nella disponibilità dei mezzi di sostentamento avranno un impatto incisivo che è ancora difficile quantificare. I governi non possono eliminare il rischio, ma possono reagire, contribuendo così ad assicurare una energica ripresa. 

Pericolo e opportunità appartengono alla crisi come due facce della stessa medaglia: il primo è inevitabile, e può solamente venire allocato su chi meglio lo possa sopportare, l’opportunità va costruita.

Chiara Di Brigida
Studentessa di Giurisprudenza con la parlantina sciolta e la polemica facile. Attualmente sposata con la caffeina, adora i fiori, i libri di filosofia e gli U2. Periodicamente (di solito in sessione) sogna di mollare tutto e aprire un chiringuito a Cuba. In realtà vorrebbe fare la giornalista, quindi tiene duro e ritorna sui libri.

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