Del: 6 Marzo 2021 Di: Martina Di Paolantonio Commenti: 0
Genere e sport, le donne eterne seconde

Il 12 febbraio Yoshiro Mori ha presentato le dimissioni da Presidente del Comitato organizzatore delle Olimpiadi di Tokyo. L’ex primo ministro giapponese ha dovuto rinunciare al suo ruolo a causa di numerose pressioni derivanti dagli sponsor e dall’opinione pubblica, causate da dei commenti sessisti. Giusto per chiarezza, Mori avrebbe dichiarato che le riunioni alle quali partecipano delle donne durano molto perché parlano troppo, portando a sostegno della sua idea il fatto che le donne sono troppo competitive quindi «Se una di loro alza la mano per intervenire, le altre pensano di essere obbligate a rispondere, e alla fine tutte quante si ritrovano a parlare».

Ovviamente le polemiche non si sono fatte attendere, e il Presidente ha presentato le dimissioni, rispondendo a quanti gli chiedevano se fosse davvero sicuro di quanto affermava «Non saprei cosa dire, ultimamente non parlo molto con le donne…». E per fortuna, verrebbe da pensare.

In realtà questo è soltanto un effetto di un problema molto più grande che lega donne e sport. Già l’origine dei commenti di Mori è da ricercare nella proposta del ministero dell’Istruzione giapponese riguardo l’estensione delle nomine nel consiglio dei Giochi a un maggior numero di donne, le quali costituivano il solo il 20% del consiglio direttivo (oggi portato al 42% dalla nuova direzione).

Questo dato si pone in un contesto, quello sportivo, dove il genere femminile è posto sempre un gradino sotto quello maschile. Anche quando vincono.

Solo prendendo in considerazione l’ambito delle posizioni decisionali nelle federazioni sportive dell’area EU, l’European Institute for Gender Equality afferma che in media nel 2015 solo il 14% degli incarichi è in mano alle donne, e a livello mondiale la situazione non migliora. Nel 2018 il Sydney Scoreboard, un indice che misura il numero di donne nella leadership degli sport, condusse alla stima che su 45 federazioni nazionali la media di donne era del 19,7%. Troppo poche.

Dalla prospettiva della stampa sportiva poi c’è da avere i brividi: più del 90% degli articoli è redatta da uomini, i quali si occupano degli sport con maggior seguito come il calcio o il rugby, lasciando alle donne gli sport più di nicchia. Se poi guardiamo lo stesso argomento da un’altra prospettiva, quella degli atleti oggetto della copertura mediatica, ben l’85% è composto da uomini.

Quest’ultima informazione ha un peso a dir poco rilevante se si pensa al fatto che il “parlare” di un atleta si traduce automaticamente in sponsor, collaborazioni, inviti, tutte occasioni di guadagno dalle quali le donne sono deliberatamente tagliate fuori, andando a determinare un allargamento del gender pay gap che si fa sentire anche nel mondo dello sport (i salari combinati pagati alle donne nelle top-division calcistiche di Francia, Germania, Inghilterra, USA, Svezia, Australia e Messico ammonta a £32.8 milioni all’anno, meno di quanto ha guadagnato il solo Neymar con il Paris Saint-Germain nella stagione 2017-2018).

Restringendo il cerchio al caso italiano, il Censis e il Dipartimento per le Pari Opportunità nel 2020 hanno raccolto dei dati su donne e sport in Italia per il progetto Respect. Stop Violence Against Women. Questi dati mostrano che dei 4˙708˙741 atleti tesserati alle diverse Federazioni sportive solo il 28% sono donne, tra gli operatori sportivi lo sono il 19,8% degli allenatori, il 15,4% dei dirigenti di società il 12,4% dei dirigenti di Federazione. Infine, le atlete rappresentano il 28,2% del totale.

Questa esclusione ha radici saldamente radicate in una tradizione che vede lo sport come una prerogativa maschile, una passione che per un uomo può essere un lavoro, mentre per una donna è al massimo un hobby, un’attività da tempo libero nel quale devono adattarsi al ruolo di eterne seconde.

A meno che non si dedichino agli sport che l’immaginario maschile può tollerare all’interno della sua stereotipata idea di femminilità, come la danza, o il nuoto sincronizzato, quelli che vengono reputati sport di serie B (forse perché non hanno mai provato la fatica che richiedono), in questi casi allora il primo gradino del podio si può concedere anche a una donna.

La stessa legge italiana ha contribuito a tenere le donne lontane dal concepire lo sport come una professione. La legge 91/1981 che regola il professionismo sportivo non specifica quali siano i criteri che distinguono il professionismo dal dilettantismo, rimandando la decisione alle federazioni. Delle federazioni italiane solo alcune (tra le quali calcio, basket, golf e ciclismo) hanno riconosciuto al suo interno la categoria professionistica, ma solo per gli uomini. Gli altri (o forse meglio dire le altre, in quanto gli uomini hanno maggiori probabilità di ottenere sostegno dai corpi sportivi militari per sopperire a questa lacuna normativa), restano dilettanti, con tutte le conseguenze economiche e sociali che ne derivano.

Non è facile essere una donna ed essere un’atleta, ma nemmeno essere una donna ed essere una dirigente, o un’allenatrice, e non solo in Italia, ma nel mondo. Non importa quanto sei veloce, resistente, allenata, arriverai sempre per seconda. Non a caso a succedere Mori nella Presidenza per il Comitato olimpico è Seiko Hashimoto. Una donna, ma come seconda scelta.

Martina Di Paolantonio
Dal 1999 faccio concorrenza all'agenzia di promozione turistica abruzzese, nel tempo libero mi lamento per qualsiasi cosa.

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