Ogni volta che nel Pd succede qualcosa di grosso non si trovano mai i colpevoli. Un segretario rinuncia, un premier si dimette, un candidato al Quirinale viene impallinato: si discute per mesi, polemicamente, e poi si va avanti come prima, più di prima. Gli autori, i mandanti e gli esecutori materiali rimangono nell’anonimato, evanescenti. E continuano a sedersi al tavolo con tutti gli altri.
Le dimissioni di Nicola Zingaretti dalla segreteria del Pd sono solo l’ultimo atto. Zingaretti, in un moto di estrema ripulsione, ha scritto: «Lo stillicidio non finisce. Mi vergogno che nel Pd, partito di cui sono segretario, da 20 giorni si parli solo di poltrone e primarie, quando in Italia sta esplodendo la terza ondata del Covid, c’è il problema del lavoro, degli investimenti e la necessità di ricostruire una speranza soprattutto per le nuove generazioni». Ha anche difeso il salvataggio del Pd, che due anni fa era dato per finito. Un grido, dunque, contro chi gli ha remato contro, soprattutto nelle ultime settimane. Ma nessun nome, ancora una volta.
Zingaretti vinse le primarie nel 2019 con il preciso intento di prendere il Pd e tirarlo fuori dalle sabbie mobili nelle quali era piombato con le elezioni del 2018. La sua leadership è stata spesso riluttante, poco coraggiosa. Nell’estate 2019 subì contrariato la manovra di Renzi che portò all’accordo con i Cinque Stelle e alla nascita del Conte II. Già allora avrebbe preferito andare alle elezioni – come voleva Salvini – ma si ritrovò al governo. Nel giro di qualche mese cambiò la propria linea e divenne il principale fautore dell’alleanza con i grillini. E quando Renzi – sempre lui – ha affondato definitivamente Conte, Zingaretti si è speso enormemente in una disperata e fallimentare resistenza sulla linea del contismo.
Due passaggi politici fondamentali, due linee diverse, due sconfitte sonore.
L’arrivo di Draghi ha prodotto un effetto detonante. L’attuale formula di governo è davvero inedita e può restare in piedi solo grazie all’ulteriore e definitivo indebolimento dei tre maggiori partiti. La Lega ha dovuto mutare radicalmente la propria linea politica, i Cinque Stelle sono pronti a gettarsi nelle mani di Conte e, forse, a mandare in pensione anche il loro nome. Il Pd sta implodendo, lentamente, sotto gli occhi di tutti.
Nelle ultime settimane i principali capicorrente del Pd, i ministri Andrea Orlando, Dario Franceschini e Lorenzo Guerini hanno accentuato le proprie divergenze con il segretario. Guerini, leader della minoranza interna, chiedeva un nuovo congresso. Orlando e Franceschini difendevano Zingaretti con poca convinzione. Mentre si moltiplicavano le critiche anche per l’assenza di donne nella delegazione del Pd al governo è maturata la scelta di Zingaretti. Questi capicorrente rappresentano le stesse fazioni che vanno dilaniando la dirigenza del Pd da anni, secondo lo schema della rivalità tra bersaniani e renziani. Già nel 2019, al momento della sua elezione, Zingaretti si era ripromesso di superare questa contrapposizione. Ma oggi, anche se Renzi e Bersani sono usciti dal Pd, i loro eredi Orlando e Guerini continuano a farsi la guerra.
Questa guerra è forse persino più antica e trova radici nelle due anime che nel 2007 diedero vita al Pd: gli ex comunisti dei Democratici di sinistra e gli ex democristiani della Margherita. A questa faglia si sono sommate le rivalità personali, le vendette, le ripicche. Nel 2008 il primo segretario Veltroni si dimise accusando i compagni di partito: «Basta farsi del male, mi dimetto per salvare il progetto al quale ho sempre creduto. Spesso mi sono trovato i bastoni tra le ruote». Nel 2013 centouno parlamentari affossarono le candidature al Quirinale di Franco Marini e Romano Prodi, due fondatori del Pd. Dopo quasi dieci anni i colpevoli restano ancora senza identità, nonostante le frequenti ricostruzioni e rievocazioni sul tema. Poco dopo il segretario Bersani si dimise con parole tristemente analoghe: «Abbiamo prodotto una vicenda di una gravità assoluta, sono saltati meccanismi di responsabilità e solidarietà. Fra di noi uno su quattro ha tradito. Ci sono pulsioni a distruggere il Pd». Nel 2017 fu il turno del segretario Renzi: «Sono tornati i caminetti, ci si perde nei litigi e non si fanno proposte». Oggi come ieri, Zingaretti se ne è andato con parole violente, sbattendo la porta, senza fare nomi. Ha certificato l’ennesimo fallimento, l’ennesimo cortocircuito di una storia che ha faticato a decollare.
Nei suoi quattordici anni di vita, il Pd è stato al governo per nove. Si è trasformato in un perfetto sistema di potere e di stabilità, l’unico partito della storia della sinistra italiana a diventare sinonimo di governabilità. Unico partito sopravvissuto al naufragio del Novecento, si è intestato la battaglia della responsabilità ad ogni costo (dal governo Monti al governo Draghi), producendo per riflesso un’inconciliabile divisione interna. Dopo quattordici anni le lancette tornano sempre al punto di partenza, al litigio polemico, alla rissa, alle dimissioni.
Probabilmente il problema non può essere risolto con il Partito democratico e grazie a questi dirigenti.
Perché un partito possa vivere e produrre qualcosa di buono, accendere e influenzare dibattiti nella società, esprimere posizioni identitarie e caratterizzanti, è necessaria una regola minima di convivenza. Nel Pd, dove a turno si pugnalano l’uno con l’altro nascondendo la mano, questa regola è tristemente assente. Gianni Cuperlo, uno dei pochi dirigenti che si è sottratto alla mattanza di segretari e maggioranze, ha scritto su Domani che «questo Pd, per quel che è diventato e per i notabilati che ha protetto, aderisce all’impronta delle origini come il chiodo al quadro. E allora se vogliamo salvare il progetto, e con quello la sinistra, rimane una sola via: rifondare quel partito, ripensarlo dal basso e dalla radice». Ma sono appunto inutili i ritriti discorsi intorno alla lontananza dal paese reale e dal territorio (chiedere per verifica allo stuolo di impiegati statali perfettamente rappresentati dal Pd): bisognerebbe pensare, prima di raddrizzare il quadro, a riappenderlo al muro, con un chiodo stabile e una cornice di comune convivenza.
Però tutto, per il momento, fa pensare che questi protagonisti, gli stessi che si nascondono ogni volta che defenestrano un leader o un segretario, o che escono dal partito quando perdono la lotta interna, non saranno in grado di realizzare la rifondazione.