Sono definiti obiettori di coscienza, il loro esercito è quello dei cosiddetti pro-life, la loro battaglia è quella contro l’aborto. In Italia la loro compagine è nutrita, compatta, combattiva. Niente che non si possa fare, certamente: l’Articolo 9 della legge 194, approvata nel 1978 per consistere alle donne italiane di accedere legalmente all’aborto, recita che «il personale sanitario ed esercente le attività ausiliarie non è tenuto agli interventi per l’interruzione della gravidanza quando sollevi obiezione di coscienza, con preventiva dichiarazione». L’obiezione di coscienza è dunque un diritto, una possibilità prevista dalla legge, un’eccezione permessa. Ma in Italia l’eccezione è diventata la regola e a rimetterci è il diritto delle donne all’interruzione di gravidanza, il diritto alla scelta. In Italia il 68.4% dei medici si dichiara obiettore di coscienza, con uno sconcertante picco del 92.3% in Molise. Il confronto con gli altri Stati dell’Unione Europea rende chiara la dimensione del problema nel nostro Paese: 6% in Germania, 3% in Francia, in Gran Bretagna il 10%, in Finlandia e in Svezia l’obiezione di coscienza non esiste neppure.
L’attenzione sul fenomeno dei ginecologi che si rifiutano di operare un’interruzione volontaria di gravidanza (IVG) si riaccende ciclicamente quando scappa il caso di troppo, quando la declamata eticità della scelta pro-life arriva a compromettere la salute della paziente, trasformandosi in una condanna a morte o quasi. L’ultimo caso riguarda una donna di Napoli, arrivata in ospedale in condizioni critiche alla 18esima settimana di gravidanza con il feto già privo di battito. Il medico di turno si è rifiutato di eseguire l’aborto appellandosi all’obiezione di coscienza. Fortunatamente la paziente è stata soccorsa da un altro medico e salvata, ma riecheggia ancora il caso di Valentina Milluzzo, uccisa nel 2016 da una setticemia a Catania mentre teneva in grembo due gemelli. I medici si erano rifiutati di operare l’aborto che probabilmente l’avrebbe salvata perché obiettori.
Questi tragici eventi costituiscono casi particolari, in cui l’obiezione sconfina nell’illegalità: la Legge 194/78 infatti afferma chiaramente la possibilità di rifiutare un intervento abortivo solo nel caso in cui non ci siano conseguenze per la salute della donna. Ma la matrice di questi avvenimenti come di altri meno drammatici è sempre la stessa: una mentalità tanto diffusa da diventare ingombrante, una scelta professionale che finisce per compromettere l’efficienza di un diritto.
Ma perché in Italia il tasso di obiezione di coscienza riguardo l’aborto è così elevato rispetto agli altri paesi?
C’è sempre una ragione etica, morale o religiosa alla base del sistematico rifiuto ad eseguire aborti? Certamente una fetta degli obiettori italiani motiva la propria posizione con serie e radicate convinzioni personali, legittimamente supportate dalla propria moralità. Ma c’è anche dell’altro. E questo “altro” non ha proprio niente a che fare con i principi, ma con un mondo della medicina che sempre più spesso e sempre più evidentemente diventa ostile nei confronti dei ginecologi non obiettori.
Le testimonianze che denunciano questo generale clima di avversione contro i medici che decidono di praticare l’IVG sono molte, una su tutte quella della Presidente dell’associazione Laiga (Libera associazione italiana ginecologi per l’applicazione della legge n. 194 del 1978) Silvana Agatone, secondo la quale spesso «i primari sono obiettori, e solo alcuni fanno rispettare comunque la legge. Si rischia di avere dei problemi, dalla mancanza dell’anestesista a un infermiere che si rifiuta di sterilizzare i ferri chirurgici. Anche l’ambiente culturale non facilita il tutto, talvolta si fa un uso spropositato dell’obiezione. Recentemente dei colleghi stavano facendo interventi e il personale si è rifiutato di lavare i ferri chirurgici, il collega ha dovuto sterilizzarli e continuare da solo. In altri ospedali portantini si rifiutano di portare le pazienti, o manca l’anestesista».
Il racconto di Silvana Agatone trova autorevole conferma nel rapporto della Commissione Europea per i Diritti Sociali, in cui si ammonisce l’Italia rispetto al fenomeno dilagante dell’obiezione di coscienza, accusando il nostro paese dell’«incapacità di intraprendere qualsiasi formazione preventiva o misure di sensibilizzazione per proteggere i medici non obiettori dalle molestie morali». Dunque la discriminazione non tocca solo le donne che ricorrono all’aborto (emblematico il recente caso della ragazzina nel piacentino che, a seguito di un’interruzione di gravidanza, è tornata in classe ritrovandosi davanti cartelli con raffigurato un feto e commenti molto offensivi), ma anche i medici che, nel pieno dei loro doveri, operano nel rispetto di quella Legge 194 nata come baluardo del diritto alla scelta e ormai trasformata nella condanna alla penalizzazione. Una penalizzazione che per il personale sanitario non passa solo per la gravosa discriminazione morale, ma anche per intricati sistemi di assunzione che privilegiano i pro-life o da prospettive di carriera che rendono svantaggioso il ruolo di non obiettore.
Questo ostruzionismo costruisce un clima di lavoro non sereno che, oltre alla tranquillità dell’ambiente lavorativo dei medici, va a minare la salute e il benessere delle donne che devono – o liberamente vogliono – ricorrere ad un aborto. Davanti a tutte queste difficoltà, davanti a tutte le evidenze delle ingiustizie subite dalle donne, lo Stato italiano sembra mantenere la rotta maestra della negazione del problema, l’immobilismo di chi ha sempre qualcosa di più urgente a cui pensare. L’interruzione volontaria di gravidanza costituisce ancora un tabù molto lontano dall’essere abbattuto in un’Italia dove le posizioni pro-life (come se poi essere a favore dell’aborto, per contro, significasse essere a sfavore della vita) finiscono per confondersi con uno sfondo tossico di discriminazione e di offesa al diritto di scegliere.