“Gregor Samsa, svegliatosi una mattina da sogni agitati, si trovò trasformato, nel suo letto, in un enorme insetto immondo.” C’è chi sostiene che la polemica sull’ ennesimo testacoda salviniano sia dibattito sterile, ma qui gatta ci cova! Dietro alle dichiarazioni degli ultimi giorni (svolta europeista?) e l’inaspettato ingresso nel governo Draghi si nasconde qualcosa di più radicato che coinvolge l’intera compagine sovranista. Sarebbe parziale declassare gli ultimi avvenimenti alla lunga lista delle politiche giravolte dettate dall’occasione, perché ciò che accade in questo periodo alla destra italiana non è un fenomeno effimero. È il primo sintomo di uno “smarrimento della bussola strategica”.
“La politica italiana è segnata da specificità che ne fanno un unicum nel panorama europeo sin dai tempi della Prima Repubblica.” Lo sostiene Marco Tarchi sulle pagine di Domani, e con lui una lunga serie di esperti della cosa pubblica. L’eccessiva fragilità che caratterizza i nostri esecutivi, non permettendo il raggiungimento del termine di legislatura, rende impossibile l’attecchirsi di una visione politica di lungo termine in grado di affrontare i grandi problemi e la giusta stabilità per intraprendere un serio percorso di riforme strutturali. Che il governo più longevo della storia della Repubblica (Berlusconi II) sia rimasto in carica a malapena per 4 anni (tra il 2001 e il 2005) è un’anomalia che continua ad interrogare osservatori sia italiani che esteri. Dopo tutto questo trasformismo, l’ennesimo governo tecnico, le coalizioni fragili, le scissioni e la frammentazione partitica sembra quasi scontato il generale disfavore provato da una buona parte dell’elettorato nei confronti della politica e delle èlite.
Tra le molteplici spiegazioni della disfunzione del sistema c’è anche la mancata legittimazione della destra e la sua peculiare articolazione interna che la differenzia da tutte le aggregazioni analoghe presenti in Europa.
Essendo rimasta a lungo fedele ad un certo retaggio di matrice fascista essa fu bandita dall’arco costituzionale negli anni della Prima Repubblica e perciò la democrazia italiana non potette beneficiare della dinamica dell’alternanza partitica. Nel momento dell’avvenuta legittimazione istituzionale, l’avvento di Berlusconi nel 1994, il nuovo centro-destra non si affrancò però del tutto dal suo passato dando vita ad un’alleanza con le componenti più estreme (Alleanza Nazionale e Lega Nord). Le linee dominanti conservatrice e cattolico-liberale non facevano che “legalizzare” le ali estremiste della coalizione di governo nascondendole. Un simile impasto così eterogeneo di componenti, considerato inaccettabile dalla maggior parte delle destre europee, a lungo andare finì per essere accettato e considerato normale perfino in Europa. Poco prima delle elezioni politiche 2013 nasceva invece delle ceneri di AN, nel seno del PDL, un nuovo gruppo politico (Fratelli d’Italia) guidato dal triunvirato Meloni-La Russa-Crosetto, che rappresentava un chiaro partito di destra sovranista e che da lì a pochi anni sotto la guida di Giorgia Meloni avrebbe assunto connotati sempre più populisti.
Il successivo quinquennio 2015-2020 ha visto un progressivo trionfo di popolarità dei movimenti definiti populisti che ha trovato terreno fertile nella destra italiana, in particolare nei partiti di Meloni e Salvini. In questo nuovo contesto politico le formazioni tipicamente liberal-conservatori hanno iniziato a trovarsi in seria difficoltà, temendo di perdere il consenso da parte di un tessuto sociale sempre più polarizzato. In Europa però la risposta a questa ventata anti-establishment si è concretizzata in una netta presa di distanza. La chiusura verso ogni tipo di accordo dei partiti più moderati come Merkel e Macron nei confronti di Alternative für Deutschland e Le Pen sono esempi emblematici della strenua reazione dei filo-europei. In Italia, tutta un’altra storia. Nel 2018 la Lega diventa il primo partito di destra superando Forza Italia, e con l’infrazione del patto con Berlusconi, sale a Palazzo Chigi al fianco del Movimento 5 Stelle (governo giallo-verde). Da lì in poi, l’ascesa del partito di Meloni, la canonizzazione dei toni infiammati e l’uso manipolatorio dei social divenuto prassi, sanciscono il nuovo spirito dell’epoca.
Era venuto a formandosi un polo a trazione sovranista e populista, segno del fallimento della politica tradizionale.
E qui arriviamo a Kafka. Il 2020 segna una nuova metamorfosi, questa volta però per i populisti che una volta raggiunto l’apice incominciano a cambiare rotta. Nella condizione di inaugurare una partnership che avrebbe potuto condurli ad una maggioranza autonoma nel futuro parlamento, Matteo Salvini e Giorgia Meloni hanno mostrato, invece, di essere spaventati dal loro stesso successo, reagendo ognuno a modo suo; l’uno strizzando l’occhio al liberalismo, l’altra al conservatorismo.
Il Covid ha segnato una cesura rispetto al passato: l’opinione pubblica si è rivelata sempre più distaccata dai toni talvolta sopra le righe che hanno caratterizzato il sovranismo. Una tendenza che ha trovato il momento di massimo spannung con i fatti di Washington e l’assalto di Capitol Hill determinando uno iato rispetto al passato che nemmeno la sconfitta alle elezioni di Donald Trump a novembre aveva rappresentato.
Dopo aver dato di sé, nell’arco dei sette anni di segreteria, un’immagine di capo indiscusso e plebiscitario, la leadership di Salvini inizia a scricchiolare. La resistenza alla sua linea viene da una parte consistente della classe dirigente leghista e dagli elettori del Nord che hanno cercato di impedire il consolidamento della fisionomia populista e hanno spinto per l’ingresso nell’attuale governo. Si pensi alle continue esternazioni di Giancarlo Giorgetti (attuale ministro dello Sviluppo economico).
Meloni, dalla sua, rifiutatasi di salire sul carro dei vincitori si è immediatamente attirata le critiche di una parte del suo mondo politico, che ha reagito con insoddisfazione contestandone la mossa politica giudicata “gioco della raccolta dei voti del dissenso”, scelta piuttosto rischiosa in quanto relegante al di fuori dell’area governativa e politicamente isolante. La sensazione è quello di un repentino cambiamento nel quadro politico italiano e internazionale, e di una nuova normalità in cui i partiti di protesta accettano i compromessi necessari per governare perdendo per questo la propria principale attrattiva. Il paradosso allora è il seguente: si è guadagnato consenso costruendolo su proposte radicali ma si assumono posizioni moderate e più gradite alle élite proprio per consolidare il potere ottenuto. Quanto questa scelta piacerà agli elettori che oggi gli promettono il primato nelle intenzioni di voto, lo si vedrà presto.
Articolo di Riccardo Piccolo.