Abbiamo fatto abbastanza?
Nel discorso programmatico con cui ha chiesto la fiducia al Senato, il presidente del Consiglio Mario Draghi ha spiegato quali saranno le priorità e le ambizioni del suo governo. Una cosa che fa ben sperare è stata la sua insistenza nei confronti delle nuove generazioni.Frequentemente Draghi ha richiamato il futuro all’interno del suo discorso, ricordandoci che l’obiettivo prioritario di oggi è avviare un percorso di riforme che abbia come prospettiva il mondo di domani.
In cima alla lista delle priorità c’è sicuramente la questione della tutela ambientale da attuare attraverso una vera e propria transizione ecologica che sarà l’obiettivo specifico dell’omonimo nuovo ministero. Quello di una transizione ecologica è da qualche tempo un tema di fondamentale importanza per i movimenti ambientalisti: implica la trasformazione del sistema produttivo verso un modello più sostenibile, che renda meno dannosi per l’ambiente la produzione di energia, la produzione industriale e, in generale, lo stile di vita delle persone.
Mai sentito parlare di approccio whole-government?
La transizione ecologica è una questione che però ci pone di fronte alla necessità di ripensare le politiche in settori che vanno ben oltre il perimetro dei temi ambientali, come le politiche industriali, economiche, urbane, fiscali, energetiche, di salute pubblica, agricoltura, trasporti, tutela del territorio, gestione dei rifiuti, ricerca scientifica e perfino politica estera.
Ciò che davvero è indispensabile comprendere è che la transizione ecologica riguarda ormai in sostanza tutto ciò di cui si occupano i governi.
L’idea è che questa transizione, al di là dal perimetro delle competenze del nuovo dicastero (che è stato potenziato), riguardi anche diversi altri ambiti di competenze e settori in un approccio whole-government di progetti integrati. Con le parole di Roberto Cingolani (ex responsabile dell’innovazione tecnologica di Leonardo e ora a capo del neonato dicastero per la transizione ecologica): «Una nuova tecno-politica basata sulla prevenzione, capace di guidare lo sviluppo umano entro i confini planetari, […] occorre che la scienza impari a essere interdisciplinare, e molto più diffusa e partecipata dalla popolazione di quanto non sia attualmente».
Tra il dire e il fare c’è di mezzo il mare
Rimane tuttavia da vedere come tutto questo si trasformerà in decisioni e in politiche. Non c’è garanzia sull’effettivo funzionamento del nuovo ministero, infatti, l’indispensabile approccio composito porterà ad una complicazione della macchina procedurale, aumentando il grado di complessità del sistema. Vi sarà inoltre, una necessaria modifica dell’impianto normativo, per consentire a Cingolani di avere l’ultima parola sulle misure da intraprendere. Del resto, ministeri simili creati in Spagna e Francia non hanno avuto vita facile, tra problemi organizzativi e resistenze corporative di varia provenienza.
Sono tanti gli ambiti (e i relativi ministeri) toccati dalla transizione ecologica e altrettante saranno le difficoltà che affronterà quest’assetto in cui questioni di complessità tecnica, burocratica e gestionale, si incontreranno con la difficile ripartizione delle deleghe provenienti dagli altri ministeri coinvolti. Nello specifico passano al rinnovato ministero: il capitolo energia (dallo Sviluppo Economico), la mobilità e gli incentivi (da Infrastrutture e Trasporti) e la gestione dei biocombustibili (dall’Agricoltura).
Si può sempre vedere il bicchiere mezzo pieno o mezzo vuoto, ma almeno, al di là di tutto, l’intento della nuova organizzazione sembra piuttosto chiaro: un sistema integrato sembra promettere maggiore coerenza ed efficienza per ottenere una razionalizzazione delle competenze e degli obiettivi da attuare.
Una cosa però va detta: questo nuovo ministero non sarà un centro nazionale di ricerca. Un ministero, infatti, non è chiamato a trovare soluzioni innovative, perché un ministero non è fatto solo di tecnici e scienziati, ma è un insieme di dirigenze che in primo luogo si occupa di coordinare e ottimizzare il contesto socio-economico al fine di renderlo fertile per l’innovazione di cui necessita.
Questo è il dilemma: etico o economico?
Legata strettamente alla questione ambientale c’è quella dello sviluppo economico. Lo stesso Draghi, nel suo discorso, ha sostenuto come i modelli di crescita utilizzati fino a questo momento dovranno cambiare, perché rei di aver contribuito alla crisi climatica.
Ma che rapporto c’è tra economia e ambiente? È possibile una crescita sostenibile? Capitalismo etico è una contraddizione in termini?
Per Luigino Bruni (economista e accademico italiano) la risposta è no, ma l’errore da evitare è quello che ha caratterizzato la logica dei bilanci sociali delle imprese per tutto il XX secolo. Ciò che è sempre stato tenuto in considerazione nella contabilità delle aziende è il solo bilancio economico, pensato come del tutto indipendente dalle questioni socio-ambientali. Queste ultime rendicontazioni sono infatti usualmente considerate ininfluenti per le scelte economiche dell’azienda.
Il modus operandi finora adoperato dalla maggioranza delle industrie si spiega nel diffusissimo adagio “prima si fa economia e poi si fa l’ambiente”. La novità del XXI secolo, sostiene Bruni, è che il mondo è sintetico e complesso: le cose, per essere efficaci, si devono fare simultaneamente e l’economia, perciò, è già intrinsecamente o ecologica o non ecologica (etica o non etica).
Il Ministero della transizione ecologica non può essere considerato come elemento accessorio di un’economia neutrale rispetto all’ecologia perché questa logica dei due tempi ha portato inevitabilmente al disastro ambientale. Ormai ecologia e sviluppo (proprio come Dio e il sommo bene nell’argomento ontologico di Sant Anselmo) non possono più essere pensati separatamente. Interessanti in questo senso gli studi di Amartya Sen (Premio Nobel per l’Economia nel 1998), per il quale il concetto di sviluppo si differenzia apertamente da quello di crescita. Lo sviluppo economico non coincide più con un aumento del reddito ma con un aumento della qualità della vita, ed è proprio l’attenzione posta sulla qualità, più che sulla quantità, a caratterizzare secondo Sen l’eticità di un sistema economico.
Il Recovery come panacea a tutti i mali
L’Italia non può permettersi di perdere il treno. Certamente bisognerà spendere bene questi soldi (in gioco c’è il 37% del Recovery Fund, oltre 70 miliardi) facendo scelte radicali sul piano infrastrutturale, ma la verità è che ciò non può bastare. L’apparente contraddizione tra economia ed ecologia non è per nulla irrisolvibile, ma oltre all’attenzione allo sviluppo di nuove tecnologie sostenibili e fonti energetiche alternative, rimane fondamentale soprattutto il cambiamento negli stili di vita.
Se l’«how dare you» gretiano al discorso dell’ONU ci ha fatto vibrare così forte le coscienze è perché ancora non stiamo facendo abbastanza per spezzare le nostre pessime abitudini.
La lezione morale impartita dai giovani agli adulti degli ultimi anni serve a ricordarci la centrale importanza della rivoluzione culturale e a marcare il distacco della nuova generazione dal provvidenzialismo dei “vecchi” italiani che aspettano senza muovere un dito la soluzione miracolosa alla crisi. In questo caso il fantomatico deus ex machina che salverà la patria si chiama Next Generation EU ma questa ennesima deresponsabilizzazione non fa i conti con l’idea che, allo stato attuale, crescita e sostenibilità sono incompatibili.
La transizione ecologica è anche cultura politica: non bastano i miliardi europei a sanare decenni di degrado civile sul terreno ecologico perché quanto mai in questo ambito i cambiamenti sociali sono lunghi e complessi e ci riguardano in prima persona in quanto cittadini di una democrazia. Detto con lo stile asciutto e risoluto tipico dei giovani: se non si cambia, non se ne esce!
Transizione. Ok, ma verso dove…?
In conclusione, la domanda sulla bocca di tutti. Il cambio del nome del Ministero dell’ambiente sarà solo una questione formale o di sostanza? Non ci si può nascondere che, a dispetto dell’importanza e dell’urgenza della crisi climatica e ambientale, il rischio del greenwashing, cioè di un’operazione verde di facciata che preserva lo status quo, rimane elevato. Per impedirlo, sarà necessaria l’attenzione, la consapevolezza e la partecipazione da parte dell’opinione pubblica.
Ad ogni modo chiamare il Ministero dell’Ambiente, Ministero della Transizione Ecologica non può che promettere bene, perché richiama la necessità di un cambiamento sia culturale, sia economico e sembra ricollocare il problema in una prospettiva di lungo termine, di futuro dell’umanità.
La stessa transizione ecologica deve essere maneggiata con cura, a partire da cosa si intende per transizione, visto che ha molti significati e relativi usi in campi diversi. Se genericamente significa passaggio, mutamento, ponte, può anche indicare una fase intermedia di un processo, che si prefigge di passare da uno stato di approssimativo equilibrio ad una nuova condizione più stabile che tenga insieme i suoi elementi trascendendoli come in una sintesi hegeliana. E quest’ultima interpretazione costituisce l’unico lieto fine possibile tra gli innumerevoli molto più tragici.
Articolo di Riccardo Piccolo