Del: 4 Aprile 2021 Di: Michele Pinto Commenti: 0

Una curiosa leggenda è circolata a lungo intorno alla figura di Georges Simenon: si dice che alla fine degli anni Venti un giornale gli propose di scrivere in una gabbia di vetro di fronte al Moulin Rouge, a Parigi, in cambio di 100 mila franchi. L’idea era di mettere in mostra la grande rapidità di scrittura di Simenon e di consentire ai passanti di seguire il romanzo attraverso le pagine dattiloscritte che via via sarebbero state appese alla struttura di vetro. Una geniale trovata pubblicitaria. In realtà non se ne fece nulla, probabilmente perché il giornale fallì, ma l’aneddoto ha preso piede e viene tramandato nelle biografie e negli articoli di giornale. Anche per questo, ma non solo, Simenon è stato a lungo considerato uno scrittore poco serio, che doveva la sua popolarità alla produzione di romanzi semplici e intriganti ma di poco valore letterario.

Lo stesso Simenon, nato a Liegi nel 1903, non fece molto per scrollarsi di dosso questa nomea. Dopo varie esperienze giornalistiche arrivò a Parigi e si tuffò in una frenetica attività di scrittura: centinaia di racconti, decine di romanzi. Questi primi lavori erano volutamente destinati al pubblico più popolare delle edicole e delle stazioni: storie d’avventura, romanzi rosa, d’azione e del mistero. In quel periodo Simenon non dormiva mai: scriveva di giorno e di sera e poi si immergeva in estenuanti feste notturne che attiravano l’abbacinante bel mondo parigino. Quando gli invitati crollavano esausti sui cuscini e sui divani dei salotti, lui si ritirava nel suo stanzino e si metteva a scrivere, fedele al rigido programma che si era imposto. In quello squarcio d’indimenticabile età del Jazz faceva coppia fissa con la ballerina afroamericana Joséphine Baker, star della rivista musicale che aveva reso celebre in tutta Europa il charleston. 

La sua unica vera occupazione era e restava la scrittura.

Adottò vari pseudonimi per consentire agli editori e alle riviste illustrate di poter pubblicare l’enorme mole di opere che andava producendo. A metà degli anni Trenta inventò il commissario Maigret, protagonista nei successivi decenni di 75 romanzi e un centinaio di racconti. Con la fine degli anni Trenta intraprese anche la scrittura di romans-durs, o romanzi-romanzi, caratterizzati da un maggiore gusto letterario. Romanzi più seri. Dopo la guerra, impaurito dalle accuse di collaborazionismo con gli occupanti tedeschi, andrà in America. Tornerà poi in Europa, dedicandosi sempre più spesso a viaggi in barca nel Mediterraneo e a escursioni fluviali nell’Europa centrale su una chiatta rinominata Ginette. Infine si stabilirà in un’immensa e pacchiana casa sulle Alpi svizzere. Una vita turbinante.

Una celebre fotografia che ritrae Simenon con Joséphine Baker.

Raccontò più volte, anche nelle lettere all’amico Federico Fellini – pubblicate da Adelphi in Carissimo Simenon. Mon Cher Fellini – di aver avuto rapporti sessuali occasionali con migliaia di donne, forse diecimila, a testimonianza di una relazione complicata, anomala e distorta con la sessualità. Accanto a questa esistenza ricca di diversivi, avventure e tormenti non si può tralasciare, come su un’ideale piatto della bilancia in grado di compensare tanta esuberante vitalità, l’estrema rigidezza della sua routine di scrittore. Maniacale e preciso, organizzava sessioni di scrittura di dieci giorni, seguiti da pochi altri per rivedere il dattiloscritto del testo. In circa venti giorni un romanzo era così completato: questo rituale, con poche eccezioni, si è ripetuto centinaia di volte.

Non era però un rituale utilitaristico. Entrando in quello che lui stesso chiamava état du Roman, un vero e proprio “stato di romanzo”, sentiva l’esigenza di isolarsi e chiudersi nel suo studio, per scrivere e depositare su carta la storia che aveva iniziato a ossessionarlo, tanto da provare sulla pelle e sul corpo il disagio e i malesseri dei personaggi. Diventava intrattabile, a stento mangiava. Poteva reggere un tale ritmo solo per qualche giorno, prima che diventasse insostenibile. Dopo alcuni accorgimenti preparatori – i nomi dei personaggi tratti dalla guida del telefono, le loro biografia annotate su una busta gialla – in breve tempo completava la prima stesura del libro. Questa rapidità giustificava anche la necessità dei suoi editori di dilazionare e suddividere in collane le varie opere, in modo da evitare di ingolfare con i titoli di Simenon i propri cataloghi.

La riscoperta di Simenon ha le sue radici negli anni Ottanta, quando Adelphi ha cominciato la pubblicazione di tutte le opere, che continua tuttora. 

Roberto Calasso, scrittore e presidente di Adelphi, raccontando nel libro L’impronta dell’editore (2013) le modalità con cui Simenon venne presentato al pubblico italiano, dopo decenni in cui Mondadori aveva pubblicato quasi esclusivamente i romanzi di Maigret, ha spiegato la decisione di «presentare Simenon come uno dei grandi scrittori del Novecento, ma dandolo per sottinteso». Dopo un incontro preparatorio e vari tentativi propiziati anche da Fellini – Simenon, ormai anziano, si era ritirato a Losanna – lo scrittore belga, da sempre molto esigente con gli editori, finì per convincersi. Racconta Calasso:

Il primo Simenon che pubblicammo, nell’aprile 1985, fu “Lettera a mia madre”, nella Piccola Biblioteca. Non solo perché è un testo bruciante, di altissima intensità, ma per un motivo che riguardava l’autore. Simenon infatti era rimasto offeso perché Mondadori aveva sempre evitato di pubblicare quel piccolo libro, sostenendo che era «troppo corto».

Dopo la ripresa dei romanzi del commissario Maigret, Adelphi si concentrò sui cosiddetti romanzi-duri. Aggiunge Calasso: «Sapevamo benissimo che la riuscita dell’esperimento Simenon si sarebbe potuta giudicare soltanto sull’esito dei romanzi “non-Maigret”». Negli anni successivi la riscoperta si diffuse anche in Francia, tanto che nel 2003 lo scrittore belga fu infine inserito dall’editore Gallimard nella prestigiosa collana della Pléiade, che pubblica i più grandi autori francesi.

Mentre Adelphi continua a ripubblicare i titoli di Simenon – l’ultimo, a inizio 2021, è La fattoria del Coup de Vague (1938) – non cala l’interesse e l’attenzione per le opere dello scrittore belga. Rimanendo sui romanzi-duri, è impossibile non notare come il filo rosso che lega questa moltitudine di vicende sia il racconto di storie minute: trame costruite intorno a personaggi della piccola borghesia cittadina (spesso piccola solo nei sentimenti), abitanti della provincia, piccoli commercianti e bottegai. In questi romanzi il dramma matura quasi sempre all’interno dei protagonisti, che a causa di un evento esterno o di una nuova consapevolezza sono costretti a fare i conti con un drastico cambiamento, con la necessità di cambiare vita, di adattarsi alle circostanze mutate. Ne Il gatto (1966), ad esempio, c’è la storia di due coniugi, Émile e Marguerite, che abitano in un’oscura via laterale nella periferia di Parigi e si odiano di un odio sordo, indecifrabile. Non si rivolgono la parola da anni. La loro vita gira intorno a pochi elementi: i bigliettini che si scambiano, il gatto, le poltrone del salotto, le cene frugali a base di patate lesse, cipolle e vitello freddo. Finché qualcosa accade. 

Tutto ovattato, ma carico di una tensione narrativa palpabile. È questa la cifra dei romanzi di Simenon.

Al centro della narrazione c’è spesso la provincia francese con i suoi miseri risentimenti, i suoi odii e le sue intricate dinamiche di comunità. Anche dopo il trasferimento negli Stati Uniti, al termine della Seconda guerra mondiale, Simenon continuò sorprendentemente a produrre romanzi europei e francesi, tanto accurati da sembrare scritti in Europa. 

Simenon con l’amico Federico Fellini.

Non è facile intuire la complessità dei temi che lo scrittore belga ha esplorato nel corso dei decenni, proprio a causa del vasto numero di opere. Come tante porte aperte, i vari romanzi rischiano di fuorviare e confondere: solo osservando l’opera nella sua interezza è possibile comprendere le linee fondamentali dello scrittore belga. Ci sono il tradimento, la vendetta, l’ipocrisia, l’ossessione. Ma c’è anche, in modo pervasivo, il tema della rottura dei legami familiari e dei vincoli della società, come nei due celebri romanzi L’uomo che guardava passare i treni (1938) e La neve era sporca (1948). In quest’ultimo un giovane, immerso nell’atmosfera cupa e oppressiva di una città occupata da un esercito straniero, si convince di dover compiere un delitto per diventare veramente, e finalmente, un uomo. Spesso la sensazione è che questi sentimenti forti e conturbanti derivino dall’esperienza personale di Simenon e dai molti tormenti della sua vita.

Un’altro elemento, forse ancora più decisivo, è l’utilizzo di parole che lo stesso Simenon ha definito “materiche”, in grado di far percepire gli odori, i sapori, i suoni. Intorno a queste parole, trovano spazio pochissimi aggettivi. Germoglia così una scrittura essenziale, forse figlia della fascinazione di Simenon per gli elenchi del telefono e i dizionari. Ma sempre in grado, in ogni romanzo, di far sentire, insieme alla storia e ai caratteri dei personaggi, il clima e l’atmosfera di una piazza, di un appartamento di periferia, di un locale nei pressi del porto, di un treno affollato di pendolari. Atmosfere e climi che si sono susseguiti e ripetuti, con sconvolgente regolarità, in decine di romanzi.

Michele Pinto
Studente di giurisprudenza. Quando non leggo, mi guardo intorno e mi faccio molte domande.

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