Del: 15 Maggio 2021 Di: Cristina delli Carri Commenti: 3

La storia del Medio Oriente, e in particolare quella della Cananea, è una storia millenaria fatta di popoli, costumi, religioni, ma anche di guerre, distruzioni, morte.Per molti occidentali, tutto inizia con l’Esodo degli ebrei dall’Egitto, raccontato nell’Antico Testamento. Giunti e stanziati nella Terra Promessa a seguito di anni di schiavitù egiziana, come da racconto biblico, gli ebrei furono costretti a lasciare definitivamente il territorio palestinese tra il 70 e il 135 d.C., a causa delle conquiste militari dei romani: è questa la prima diaspora, la dispersione del popolo ebraico nei vari angoli della Terra.

Fino alla tragedia della Shoah, il popolo ebraico è rimasto diviso e ha vissuto rispettando leggi e sovrani diversi, mischiandosi con altre genti, acquistando cittadinanze e documenti sempre nuovi, senza mai perdere del tutto la propria cultura, le proprie tradizioni, la propria lingua, con la promessa di tornare, prima o poi, nella Terra dei Padri. Nel frattempo, nel 1299 nasce l’Impero Ottomano: 623 anni di storia in cui gli arabi hanno dominato il Mediterraneo e con esso anche le terre promesse dal Dio ebraico al suo popolo.

Ed è alla caduta dell’Impero Ottomano, alla fine della Grande Guerra (1918) che si apre la questione israelo-palestinese.

Non un conflitto, non una guerra, ma un problema legale, culturale, sociale, che da più di cento anni chiede una soluzione definitiva.

Dopo lo scioglimento dell’Impero Ottomano infatti, Francia e Regno Unito si impegnano a stabilizzare i territori precedentemente dominati dalla potenza turca, mirando a rendere autonomi i popoli che li abitavano. Così, nel 1920 inizia il Mandato Britannico in Palestina, il cui obiettivo principale è quello di costituire uno Stato di Palestina, abitato sia dagli arabi del luogo (i palestinesi), sia dagli ebrei che nel frattempo erano lì emigrati.

Infatti, negli stessi anni in Europa continua la proliferazione del sionismo, il movimento nazionalista ebraico che vuole rispondere all’inasprirsi delle spinte antisemite con il progetto di costruire un nuovo Stato d’Israele, dedicato al popolo ebraico, nel territorio palestinese. Così gli ebrei sionisti iniziano a migrare nella Palestina storica, abbandonando gli Stati europei in cui ormai da secoli risiedono, con il benestare dell’amministrazione britannica.

Il territorio della Palestina storica è una striscia di terra prevalentemente desertica, povera di corsi d’acqua e di risorse naturali: con l’aumentare della popolazione cresce quindi anche la povertà, e con essa arrivano le prime rivolte degli arabi contro gli immigrati ebrei. Le migrazioni però non cessano, anzi si intensificano con lo scoppio della Seconda Guerra Mondiale ed esplodono alla sua fine, nel 1945: basti pensare che nel 1915 gli ebrei in Palestina erano circa 83.000, mentre arriveranno a 905.000 nel 1947.

La situazione è ormai sfuggita al controllo del Regno Unito, che già dal 1939 cerca di riportare la pace tra i due popoli, proponendo con un documento, il Libro Bianco, la divisione del territorio in due Stati. La stessa soluzione verrà avanzata nel 1947 dall’ONU, a seguito di uno studio compiuto dalla Commissione Speciale per la Palestina: con la risoluzione 181 del 29 novembre 1947, la Palestina viene di fatto divisa in due Stati, il più grande, prevalentemente desertico, dedicato agli ebrei, mentre due aree minori e discontinue tra loro – Gaza e Cisgiordania – vengono lasciate ai palestinesi. La città di Gersualemme, luogo sacro di tutte le religioni del Libro, resta sotto il controllo dell’ONU.

Con la risoluzione 188 si accendono le violenze tra ebrei e arabi, che culmineranno con quella che ancora oggi è ricordata come al-Nakba, la disgrazia: nel 1948 nasce ufficialmente lo Stato d’Israele, così il popolo arabo-palestinese è costretto con la forza ad abbandonare le proprie case e tutti i propri averi e a ritirarsi inizialmente nelle zone a loro dedicate secondo la risoluzione dell’ONU, poi in uno spazio sempre più ridotto a causa dell’offensiva israeliana. Le proprietà liberate dai palestinesi in fuga vengono quindi occupate dagli israeliani.

Ancora oggi, alcuni conservano le chiavi delle case appartenute alle loro famiglie fino a 73 anni fa, rivendicando il proprio diritto al ritorno.

La situazione tra Israele e Palestina torna a scaldarsi nel 1967: è l’anno della Guerra dei sei giorni, durante la quale Israele, dotato di un potentissimo esercito, attacca Egitto, Siria e Giordania, ossia Stati arabi schierati in difesa dei palestinesi. In soli sei giorni Israele sconfigge le forze arabe e riesce ad ampliare i propri confini, occupando militarmente anche tutte le zone palestinesi concordate nella risoluzione del 1947: l’evento è ricordato dagli arabi come al-Naksa, il disastro. La Comunità Internazionale, allora come oggi, non riconosce come legittima tale occupazione, eppure Israele continua ad incoraggiare la costituzione di colonie all’interno dei territori palestinesi, compiendo atti vietati dal diritto internazionale.

Dal 1967 ad oggi, la questione israelo-palestinese è rimasta pressoché invariata: nonostante l’importante risultato ottenuto con gli Accordi di Oslo del 1994, con cui è nata l’Autorità Nazionale Palestinese – ente esponenziale dello Stato di Palestina – l’occupazione israeliana dei territori palestinesi non è mai cessata, né sono cessati i soprusi degli israeliani a danno dei palestinesi. Nel corso dei decenni i palestinesi sono riusciti ad organizzarsi in diversi gruppi di resistenza, dall’Olp, ad Al-Fatah, fino ad Hamas, partito islamico che ha vinto le elezioni palestinesi nel 2006 (le ultime tenutesi), considerato organizzazione terroristica da numerose potenze mondiali, tra cui USA e UE.

Tra il 1987 e il 2014, il popolo palestinese così organizzato ha risposto alle continue provocazioni israeliane attraverso la guerriglia (intifada), tentando di conservare i pochi spazi geografici dove ancora gli è concesso vivere, spesso in condizioni di povertà assoluta e privati dei diritti umani fondamentali.

Le tensioni degli ultimi giorni sono dovute all’ennesima provocazione israeliana, a cui il gruppo Hamas ha risposto con la forza (limitata, rispetto a quella schierata da Israele). Da qui un’escalation di violenza, che ha condotto più volte a denunce di abusi di forza davanti alla Corte internazionale di Giustizia contro Israele (da ultimo, le sparatorie – vietate dalla Convenzione dell’Aja e dallo Statuto di Roma – nella Moschea di Al-Aqsa, un déjà vu di quanto già verificatosi durante l’intifada del settembre 2000).

La soluzione alla questione, allo stadio dei fatti, sembra lontana dall’essere trovata. Da ormai più di cinque generazioni il popolo palestinese vive in condizioni di precarietà, attendendo il soddisfacimento del proprio diritto al ritorno, o quanto meno il rispetto del loro diritto alla vita. Sia dal lato palestinese sia da quello israeliano la radicalizzazione e la polarizzazione diventano ogni giorno più pericolose. Nel frattempo l’amministrazione statunitense, da sempre in prima linea sul fronte medio-orientale, sembra essersi disimpegnata rispetto alla ricerca di una soluzione sul tema. Così la questione israelo-palestinese sembra aver perso centralità degli assetti geopolitici mondiali.

Cristina delli Carri
Vegetariana, giramondo, studio giurisprudenza ma niente di serio. Se fossi un oggetto sarei una penna stilografica.

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