Del: 4 Giugno 2021 Di: Redazione Commenti: 0
Hip-Hop e morte, una spirale incontrollabile

La scena hip hop statunitense è sempre stata una perfetta cartina di tornasole per osservare le tendenze e i fenomeni della società americana. Per prendere in osservazione il caso più recente, l’ampio supporto al Black Lives Matters. Il movimento, infatti, ha trovato parecchio spazio nei testi e nelle dichiarazioni di un numero sempre maggiore di rapper e cantanti.

Fra questi contiamo Lil Baby (614 milioni di streaming su Spotify, candidato ai Grammy’s con The Bigger Picture, vera e propria colonna sonora del movimento di protesta), Juicy J, DaBaby (1 miliardo di stream, quasi 53 milioni di ascoltatori mensili), Jay Z, che ha donato 1,5 milioni di dollari al BLM tramite la sua piattaforma di streaming musicale Tidal.

Ma l’Hip Hop americano soffre di una malattia intrinseca. Si tratta di un grave dato, preoccupante e purtroppo esemplificativo di una situazione sempre meno accettabile: almeno 200 artisti hanno perso la vita nel corso del 2020.

Fra questi troviamo Pop Smoke, giovane astro nascente della Brooklyn drill ucciso in seguito a una home invasion nel febbraio del 2020, a seguire il rapper di Chicago King Von, ucciso nell’agosto in una sparatoria fuori da un night club ed FBG Duck, deceduto nello stesso mese durante un drive through, quella che da noi chiameremmo una stesa. E solo per citare i più conosciuti che hanno raggiunto le classifiche italiane.

Tristemente, la maggior parte degli artisti presenti in questa nera lista di nomi si rivelano essere in realtà giovanissimi, uccisi per la strada a causa delle conseguenze della cultura dell’arma da fuoco imperante negli Stati Uniti. I più erano sconosciuti al grande pubblico ma ben inseriti nelle dinamiche da guerra civile che ormai fanno parte della scena americana, divisa dalla violenza tra gang e dalle morti di artisti che ormai si susseguono in maniera vorticosa da anni.

La spirale ha inizio alle radici del movimento hip-hop, diffusosi negli anni ‘70 dalle direttrici dei quartieri più complessi come il Bronx di NY. Solo a partire dagli anni ‘90 con le perdite illustri di Tupac Shakur e The Notorious B.I.G, coinvolti nella faida tra West Coast e East Coast, il problema della violenza ha iniziato a radicalizzarsi. Proseguendo nei primi anni 2000 con Proof, amico fraterno del più noto Eminem, e solo di recente il giovanissimo e talentuoso XXXTentacion, seguito dall’affiliato della banda dei crips Nipsey Hussle.

Non si tratta d’altronde di un fenomeno proprio ed esclusivo della scena rap hip-hop: secondo The Guardian negli USA nel 2020 hanno perso la vita per crimini da arma da fuoco almeno 4.000 persone, il dato più alto negli ultimi 20 anni.

A marzo del 2021 il tabellino ha toccato le 100 morti giornaliere, 300 i feriti. Per quanto tempo ancora si dovrà assistere a questa vera e propria carneficina? Fino a quando la “cultura dello sparare” pervaderà la scena hip-hop  ̶ ma l’America tutta  ̶ e la questione della vendita libera di armi non sarà risolta, la strage è destinata a proseguire, determinando il sacrificio del talento sull’altare della libertà di offendere.

Il richiamo dell’affermazione personale, dell’eroismo di strada e della realness è talmente vivido nell’immaginario che neanche la volontà di affrancamento basta per salvare vite: si pensi che prima di essere freddato con tre colpi di pistola nel bagno della sua villa di Beverly Hills, Pop Smoke aveva deciso di spendersi per aiutare i giovani del suo quartiere a raggiungere i propri obiettivi senza cadere nella consuetudine delle gang e della violenza, addirittura ideando la fondazione Shoot for the Stars, “punta alle stelle”. Letteralmente, “sparagli”.

Articolo di Edoardo Arcidiacono.

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