«Perché scrivo delle guerre? Ho sempre pensato che quello di cui scrivo è l’umanità in condizioni estreme, spinta fino all’insopportabile, e che è importante raccontare alle persone ciò che realmente accade nelle guerre, quello che viene dichiarato e non dichiarato».Una vita dedicata a questo, quella di Marie Colvin. Una vita spesa a raccontare gli orrori dell’umanità, i suoi abissi più infimi, i traumi che l’uomo arriva a recare ai propri simili. Una vita dalla parte degli ultimi, i civili dilaniati dalle guerre dei quali raccoglieva le testimonianze per mostrarle al mondo. Allo stesso mondo che spesso, troppo spesso, si voltava dall’altra parte. Lei, invece, quel dolore lo guardava dritto negli occhi.
Marie Colvin era una leggenda tra i reporter di guerra, con l’iconica benda sull’occhio e lo sguardo profondo con cui indagava le dinamiche perverse dei conflitti e il loro costo umano: un costo nel quale, purtroppo, rientrerà anche lei.
Nata a New York nel 1956, si laurea in antropologia a Yale nel 1978, cominciando presto la sua carriera come reporter per United Press International (UPI), che la nominerà capo del bureau di Parigi nel 1984. L’anno seguente si trasferisce al Sunday Times, quotidiano britannico con sede a Londra, nonché teatro della sua futura straordinaria carriera. Già presso l’UPI la Colvin aveva avuto l’opportunità di coprire il Medio Oriente, e rimase affascinata dalla cultura, dalla politica e dai conflitti dell’area, ma nei successivi 26 anni al Sunday Times si occuperà delle guerre che affliggono ogni parte del globo, tra cui Timor Est, Cecenia, Kosovo, Zimbabwe, Sierra Leone e Somalia, oltre che, naturalmente, i conflitti in Medio Oriente.
Durante il suo percorso lavorativo inizia a collaborare con il fotoreporter Paul Conroy, che diventa suo caro amico. Conroy dirà di lei: «Per Marie, fare la reporter non significava battere la concorrenza, anche se le piaceva essere la prima ad arrivare e l’ultima ad andarsene. Era soprattutto spinta da una profonda indignazione morale di fronte alle sofferenze dei civili che vengono inevitabilmente coinvolti in tutti i sanguinosi conflitti del pianeta. (…) Era convinta che il giornalismo di guerra fosse un modo di raccontare verità scomode, di costringere i governi a giustificare la loro condotta informando l’opinione pubblica di cosa facevano in loro nome».
Fu proprio questa intima convinzione a spingerla a rischiare la vita a Timor Est, nel 1999, per salvare 1500 donne e bambini che erano intrappolati dalle forze militari indonesiane in un complesso delle Nazioni Unite. Si rifiuta di partire quando il personale ONU e i giornalisti vengono evacuati e continua a informare il mondo della situazione critica dei rifugiati all’interno del complesso. «Chi c’è lì? Dove sono andati tutti gli uomini?» le chiede il suo editore a Londra quando apprende che erano rimaste soltanto lei e due giornaliste olandesi. «Non ci sono più gli uomini di una volta» replica Colvin. Quella risposta diverrà parte della sua leggenda. Dopo quattro giorni, imbarazzate dai forti reportage della Colvin, le Nazioni Unite decidono di rivalutare la decisione di abbandonare quegli innocenti e provvedono a farli evacuare in sicurezza.
Due anni dopo, nel 2001, Colvin decide di partire per lo Sri Lanka, paese nel quale si stava consumando un conflitto ignorato dai più. In particolare decide di intervistare il leader delle Tigri Tamil, un gruppo ribelle che aveva determinato una lunga e sanguinosa guerra civile contro le forze governative. Mentre si spostava di notte dall’area controllata dalle Tigri Tamil a un’area controllata dal Governo, fu raggiunta dal fuoco delle truppe srilankesi. «Sono rimasta illesa finché non ho gridato di essere una giornalista – racconta – poi hanno lanciato la granata». In seguito descriverà il rivolo di sangue che le colava dall’occhio e dalla bocca, il senso di sconfitta, la paura di morire. «Il coraggio è non avere paura di avere paura» dirà alla consegna di un premio per il suo lavoro in Sri Lanka. A causa di quell’incidente perde l’occhio sinistro e viene trasportata d’urgenza a New York per sottoporsi a un intervento chirurgico. Durante la sua degenza in ospedale riesce comunque a scrivere 3000 parole di reportage.
La vita della Colvin procede un conflitto alla volta, con il suo impegno morale nel raccogliere le testimonianze, nell’assistere a dolore su dolore, nella fiducia che raccontando un conflitto qualcuno nel mondo comincerà a preoccuparsene.
«Hai visto più guerre tu di qualsiasi soldato» le dice uno dei dottori che incontra per curare il suo disturbo da stress post-traumatico. Nel 2011 riporta le notizie sulla primavera araba in Tunisia, Egitto e Libia, ed intervista Gheddafi con due giornalisti che poteva nominare. Scelse Christiane Amanpour e Jeremy Bowen. Infine, nel Febbraio del 2012, parte per la Siria, nonostante i tentativi del governo siriano di impedire ai giornalisti di coprire la guerra civile. È una dei pochi giornalisti occidentali presenti sul posto e rappresenta un vitale tramite di informazione per il resto del mondo. Riesce a raggiungere la città di Homs, pesantemente bombardata dall’esercito siriano.
Per Colvin i fatti sono chiari: un sanguinoso dittatore (Assad) bombarda una città senza cibo, potere, o cure mediche, mentre la NATO e le Nazioni Unite restano inermi. In un collegamento notturno con la CNN, effettuato dal media center nel quale si era rifugiata con altri giornalisti, descrive quel conflitto come il peggiore a cui abbia mai assistito: «è una completa e assoluta menzogna il fatto che stanno dando solamente la caccia ai terroristi, l’esercito siriano sta semplicemente bombardando una città di infreddoliti e affamati civili». Il giorno dopo, alle sei del mattino, l’edificio viene raggiunto dai missili dell’esercito siriano. Marie Colvin muore nell’attacco, insieme al fotografo Rémi Ochlik, al traduttore Wael al-Omar, e alla giornalista Edith Bouvier. Il fotografo e amico Paul Conroy rimane gravamente ferito.
In suo onore è stata inaugurata la Marie Colvin Memorial Foundation, impegnata nell’alleviare le sofferenze di coloro che subiscono la guerra e nel supportare i coraggiosi giornalisti che rischiano le proprie vite nel descrivere le atrocità della guerra. Conroy le ha dedicato il libro Confesso che sono stata uccisa. Infine, la sua storia è stata raccontata nel film A private war, diretto da Matthew Heineman e distribuito nel 2018. Nel film si sente spesso la protagonista (Colvin) dire alle persone che incontra durante i suoi reportage: «voglio raccontare la tua storia». Era ora che qualcuno raccontasse la sua.