«La galera è una tappa inevitabile sul cammino verso la democrazia», con questa consapevolezza Joshua Wong, attivista politico di appena 25 anni e volto noto delle proteste ad Hong Kong, racconta le sue condanne. L’accusa: organizzazione di una manifestazione illecita.
La prima condanna è arrivata nel 2017, dopo 3 anni della così detta “Rivoluzione degli Ombrelli”, a cui Wong prese parte appena diciottenne; venne arrestato dopo aver violato le transenne utilizzate dalla polizia per arginare la folla, tenuto in carcere per due giorni prima di essere liberato su cauzione. La condanna tre anni dopo.
Ma cosa porta un giovane liceale ad assumere un ruolo di “volto della Rivoluzione”?
Quando Joshua Wong parla di sé, nel suo libro Noi siamo la rivoluzione (Feltrinelli, 2020), si descrive come curioso, loquace; il bambino che urlava: “il re è nudo” davanti a chi non aveva il coraggio di affermare il vero. Nonostante la sua dislessia, il giovane attivista non ha mai smesso di raccontare: a 12 anni, con una pagina Facebook, riportava le vicende che animavano la sua scuola superiore, l’istituto privato anglicano United Christian College, guadagnandosi la fama di “giornalista” tra i suoi compagni.
Ben presto, comprese che raccontare non gli bastava: con una petizione, destinata a diventare popolare tra gli studenti, chiese di sostituire il cibo della mensa scolastica «insipido e colmo di olio». Convocato dal preside dell’istituto, la sospensione gli fu risparmiata, ma nella mente del ragazzo iniziava a impartirsi una lezione molto più grande: lo scontro con l’autorità era inevitabile per chi desiderava cambiare le cose.
Da allora, il ragazzo lasciò da parte le mense e le riforme scolastiche per dedicarsi a qualcosa di più grande. Insieme a un amico, iniziò a studiare il sistema elettorale di Hong Kong, comprendendone sempre più a fondo i limiti anti-democratici: «Il nostro governo è anomalo», avrebbe detto – come lui stesso racconta nel romanzo – al suo compagno di stanza nell’estate 2009, «com’è possibile che nessuno ne parli?».
Pochi mesi dopo la nascita di Joshua Wong, Hong Kong aveva perso il suo stato di colonia britannica e, il 1 luglio 1997, era stata annessa alla Cina come “amministrazione speciale”, dando vita al sistema “un Paese, due governi”. Questo, i giovani di Hong Kong, lo sapevano bene. Solo nel 2047 la città sarà svincolata da questo assetto, ma la libertà dei cittadini di Hong Kong ha iniziato a logorarsi già da tempo.
Gli opinionisti locali paragonano il passaggio di Hong Kong alla Cina alla storia della rana bollita. Per bollire una rana, infatti, è necessario alzare gradualmente la temperatura dell’acqua, così che, abituata al calore, la rana non si accorga della morte imminente. «La rana può gridare e dibattersi quanto vuole», sottolinea Wong nel suo libro, «ma non c’è via di fuga dall’acqua bollente. Ecco come si sente Hong Kong in questi giorni».
La temperatura iniziò a scaldarsi nel 2012.
Chun-ying Leug, sospettato di essere segretamente affiliato al Partito Comunista Cinese, divenne capo dell’esecutivo della città: il suo primo atto, dopo il giuramento, fu il dichiarato intento di dare una nuova istruzione nelle scuole di Hong Kong sul modello della Cina comunista. Il 29 luglio scesero in piazza in centomila tra genitori e studenti; a capo della manifestazione Joshua Wong e Ivan Lam, un altro studente della United Christian College, entrambi fondatori del movimento studentesco Scholarism.
Le proteste proseguirono inascoltate, costringendo Lam e altri due attivisti a iniziare lo sciopero della fame per attirare l’attenzione di un silenzioso governo. La svolta avvenne solo il 7 settembre, quando centoventimila persone vestite a lutto occuparono la piazza antistante al palazzo del governo. Il giorno dopo Chun-ying Leung dichiarò il ritiro del programma – decretando così la prima vittoria del movimento Scholarism.
Nel 2014 era ormai palese l’intento anti-democratico del governo filo-cinese. Il 31 agosto 2014 il Comitato permanente dell’Assemblea nazionale del popolo emanò le direttive per le nuove elezioni, ma la riforma elettorale tanto attesa dagli attivisti democratici si era rivelata uno specchio per allodole. Una commissione di milleduecento membri avrebbe scelto i tre candidati per l’esecutivo, dando ancora modo a Pechino di manovrare le elezioni per il governo di Hong Kong.
Il primo arresto di Wong avvenne il 26 settembre di quell’anno, quando incitò la folla a occupare Civic Square e abbattere le transenne predisposte dalla polizia; accettò il rilascio su cauzione il 29 settembre. Solo il giorno prima il lancio di lacrimogeni sulla folla attirò l’attenzione della stampa nazionale: i protestanti si difendevano dalla polizia con ombrelli gialli, poi divenuti simbolo della rivoluzione democratica di Hong Kong.
I due anni che seguirono furono, per il giovane attivista, quelli che portarono alla fama: le diverse collaborazioni con il New York Times, la nomina del Times di “Young Person of the Year 2014” e il conseguimento del decimo posto tra i 50 leader politici più influenti secondo Fortune, portarono la sua figura sotto l’attenzione globale.
Ma la strada, per Hong Kong, era ancora lunga. Nel 2016 il movimento Scholarism fu tramutato nel partito politico Demosistō, che si candidò alle elezioni del 2017. Nathan Law, volto noto del partito, riuscì a ottenere un posto all’interno dell’assemblea legislativa, ma la vittoria non fu reale. Nello stesso 2017, il governo decretò caduti tutti quei parlamentari che avessero strumentalizzato politicamente il giuramento alla Cina, come le precedenti generazioni di democratici fecero; tra queste anche Law.
Lo stesso anno, Joshua Wong e Nathan Law vennero condannati a otto mesi di reclusione, tre anni dopo gli eventi della Rivoluzione degli Ombrelli.
Nel giugno 2019 migliaia di persone riempirono nuovamente le piazze di Hong Kong: la legge per l’estradizione approvata dal governo di Carrie Lam, dal 2017 capo esecutivo di Hong Kong, avrebbe consentito al governo cinese di processare presso i propri tribunali i cittadini di Hong Kong accusati di crimini gravi. In questa circostanza Joshua Wong fu arrestato nuovamente e condannato, l’anno successivo, a 13 mesi di carcere insieme ai compagni Ivan Lam e Agnes Chow.
A seguito delle continue e violente proteste, l’emendamento è stato ritirato – ma nel 2020 il governo di Pechino sottopone a nuova minaccia il sistema “un Paese, due governi” con la legge sulla sicurezza nazionale. Questo provvedimento, approvato il 30 giugno 2020 dal Congresso permanente dell’Assemblea nazionale del popolo a voto unanime, avrà lo scopo di bloccare le attività terroristiche a Hong Kong e di vietare gli atti di «sedizione, sovversione e secessione» e le «interferenze straniere negli affari locali».
Serviranno a reprimere, dunque, qualsiasi atto che possa essere considerato come minaccia alla sicurezza nazionale. Pena: l’ergastolo e l’esportazione nei campi di lavoro. A fronte di ciò, il partito studentesco Demosistō è stato costretto a sciogliersi, con le dimissioni dei tre membri del direttivo Joshua Wong, Nathan Law e Agnes Chow.
L’attivista di Demosistō si trovava già in carcere quando, lo scorso 6 maggio, è stato nuovamente condannato per la partecipazione alla veglia del 6 giugno 2020, organizzata in onore dei defunti della strage del 1989 in Piazza Tienanmen e proibita dal governo di Hong Kong. A salvarlo dalla legge per la sicurezza nazionale è stata solo la tempistica: essendo il reato antecedente all’emanazione della legge, Wong potrà completare la pena in carcere.
«Questa condanna non è la fine della nostra battaglia», avrebbe affermato, secondo quanto riportato dal Corriere, «ora ci uniamo ai tanti combattenti coraggiosi che sono già in carcere, invisibili ma essenziali alla resistenza per la libertà di Hong Kong».