Del: 21 Luglio 2021 Di: Daniele Di Bella Commenti: 0
Acquacoltura, una pratica a impatto zero?

I discorsi dell’opinione pubblica sulla sostenibilità alimentare riguardano spesso gli allevamenti intensivi di bestiame terrestre, mentre si spendono poche parole sulle realtà che svolgono attività di acquacoltura, ossia l’insieme di pratiche che consentono l’allevamento di specie ittiche o connesse all’ambiente acquatico. Qual è il loro impatto sull’ambiente?

Prima di rispondere a questa domanda è opportuno sottolineare che l’acquacoltura è un’attività necessaria al fine di evitare l’eccessivo sfruttamento degli stock ittici tramite pesca.

Essa può essere svolta secondo tre metodi: estensiva, nel caso le specie di interesse vengano allevate all’interno di aree non condizionate dall’attività umana; semi-estensiva, quando l’intervento antropico è contemplato solo per nutrire gli individui; e intensiva. Quest’ultima pratica prevede il controllo di ciascuna fase del ciclo vitale degli animali allevati ed è condotta interamente all’interno di vasche: la resa è molto elevata rispetto alle altre tipologie di acquacoltura, alle quali viene preferita, tuttavia l’impatto ambientale non è trascurabile. Le principali criticità legate a questa tecnica sono rappresentate dai reflui che contengono le deiezioni dei pesci e gli scarti del mangime – potenziali cause di contaminazione da sostanza organica – e dalle sostanze di origine chimica (antibiotici e farmaci) che, riversate nelle vasche, giungono poi in mare aperto.

Le sostanze organiche sono una minaccia per l’ecosistema acquatico in cui vengono riversate poiché danno luogo ad eutrofizzazione: l’eccesso di cibo provoca una crescita smisurata del fitoplancton (insieme di piccoli organismi unicellulari che si nutrono delle particelle organiche sospese in acqua) che, una volta morto, precipita sul fondo del bacino idrico. Qui alcuni batteri provvedono a decomporlo sfruttando l’ossigeno in soluzione; l’enorme quantità di microrganismi fitoplanctonici impone però un consumo di ossigeno più ingente rispetto al normale: la concentrazione di ossigeno disciolto in acqua decresce drasticamente e a poco a poco la biodiversità dell’ecosistema diminuisce. Solo le specie adatte a vivere in carenza di ossigeno riescono a sopravvivere in queste condizioni, le altre scompaiono progressivamente.

Gli antibiotici invece vengono utilizzati per contrastare i problemi di densità e i parassiti: le esigenze industriali spingono a concentrare numerosi individui nelle vasche, e determinano l’insorgenza di competizioni per lo spazio dalle quali spesso gli animali escono feriti. Per lenire le conseguenze delle lesioni, gli allevatori disperdono in acqua del mangime arricchito con medicinali, oppure procedono a trattare singolarmente gli individui. Tale opzione consente di ridurre lo spargimento di prodotti chimici in ambiente ma è costosa, di difficile attuazione e alle volte alienante per chi la svolge.

Fra i parassiti che minacciano gli allevamenti di salmonidi, il copepode Lepeophtheirus salmonis è un vero terrore per gli allevatori norvegesi.

La legislazione statale prevede infatti che qualora un’eventuale infestazione superi il livello medio di 0.5 femmine di parassita/pesce, tutti i capi di bestiame presenti nell’allevamento infetto debbono essere macellati. Per evitare eccessive perdite, gli allevatori si affidano ad approcci medicali e non medicali. I primi si avvalgono dell’utilizzo di pesticidi, acqua ossigenata e altri prodotti chimici, prevedibilmente, composti poco environmental friendly che si tenta di non disperdere in ambiente utilizzando piccole gabbie galleggianti contenenti un volume di acqua noto. Alternativamente, i salmonidi vengono prelevati tramite una pompa e caricati su una barca dove vengono sottoposti alla rimozione manuale dei parassiti. Anche in questo caso vengono impiegate sostanze di sintesi.

Parallelamente esistono molti approcci non medicali, un esempio sono le sea lice skirts, reti a maglie molto fini disposte intorno alle gabbie dei salmonidi al fine di evitare l’accesso del copepode. Anche i trattamenti termali rientrano nell’insieme dei trattamenti non medicali e prevedono che i salmonidi vengano prelevati dalle gabbie galleggianti in cui sono allevati e messi in vasche colme di acqua calda. Il copepode, indebolito dalla temperatura, viene rimosso facendo passare i pesci attraverso un dispositivo simile a un autolavaggio in miniatura. Purtroppo, anche i salmoni si indeboliscono e quelli più fragili muoiono durante il trattamento.

Le problematiche intrinseche di entrambi gli approcci, medicali e non, hanno condotto all’utilizzo di cleaner fish (pesci pulitori) che vengono allevati insieme ai salmonidi affinché si nutrano dei parassiti.

Sono state individuate quattro specie di pesci pulitori: tre specie di labridi e il lompo (Cyclopterus lumpus). Nonostante i labridi presentino un’efficienza di predazione più elevata del lompo, non sono allevabili e devono quindi essere pescati da stock ittici selvaggi, col rischio di impoverirli eccessivamente. Inoltre, quando la temperatura dell’acqua scende sotto i 4°C (situazione frequente nei fiordi del Nord Europa dove sono allevati i salmonidi), questi animali entrano in uno stato di quiescenza e interrompono l’attività predatoria.

Al contrario, il lompo è facilmente allevabile e regge le basse temperature, dunque è il pesce pulitore più utilizzato. Purtroppo, anche l’allevamento di lompi presenta alcune criticità: negli allevamenti la mortalità degli individui è molto elevata e non tutti gli esponenti della specie hanno la stessa efficienza di predazione. Per ridurre il numero di lompi da allevare è utile selezionare i gruppi che hanno un’efficienza di predazione più elevata. Il sequenziamento del genoma di Cyclopterus lumpus può aiutare a individuare i geni tipici dei gruppi maggiormente efficienti nella predazione. Attualmente, l’impatto ambientale dell’allevamento del lompo è molto più elevato di quello dell’allevamento di altre specie, ma tale pratica è ancora agli albori e ha ampi margini di miglioramento.

L’acquacoltura dei nostri giorni quindi non è una pratica a impatto zero, tutt’altro, ma è necessaria per evitare di danneggiare in maniera irreparabile gli ecosistemi marini tramite la pesca. C’è molto da perfezionare e le collaborazioni fra aziende e università sono foriere di nuove strategie che rendono questa pratica sempre più sostenibile.

Immagine in copertina di Alex Antoniadis, via Unsplash.

Daniele Di Bella
Sono Daniele, da grande voglio fare il biofisico, esplorare l'Artide e lavorare in Antartide. Al momento studio Quantitative Biology, leggo, mi interesso di ambiente e scrivo per Vulcano.

Commenta