Ci lascia così, d’improvviso a quarantaquattro anni, uno degli attori più in gamba del cinema contemporaneo italiano. Libero De Rienzo non era quella star dal volto noto, era piuttosto uno di quegli attori che sapeva il proprio mestiere. La sua recitazione sempre fresca e mai stanca lo ha portato negli anni a far parte di cast importanti: Portapasc (2009), Santa Maradona (2001) in età giovanile a fianco dell’altrettanto promettente Stefano Accorsi; per poi giungere al successo assoluto nella trilogia di Sydney Sibilia, Smetto Quando Voglio, la quale gli permetterà un posto d’onore anche nel film di Netflix I Due Papi (2019) con Anthony Hopkins e Jonathan Pryce.
E come Le Iene di Tarantino ha dato visibilità ad attori protagonisti della Hollywood contemporanea, Smetto Quando Voglio ha permesso di affermare non solo il compianto De Rienzo, ma anche una serie di attori di riconosciuto e indiscusso talento: Edoardo Leo, Valerio Aprea, Paolo Calabresi, Stefano Fresi per dire i più noti, ma si potrebbe continuare.
Smetto Quando Voglio è composto dal suo primo omonimo capitolo del 2014, da Masterclass (2017) e dall’ultimo film Ad Honorem (2017). Il tema? L’università e i giovani nel mondo del lavoro.
Un ricercatore di scienze (Edoardo Leo) viene licenziato per ennesimi tagli alla ricerca e decide quindi di formare una banda di ricercatori universitari, tutti in situazioni precarie, per iniziare a produrre droga sintetica, la quale però, per via della sua composizione chimica unica al mondo, non è ancora stata individuata dallo Stato e quindi non è identificata come sostanza illecita.
Proprio nel periodo in cui Breaking Bad diventava cult, Sydney Sibilia porta una storia di droga che fa non solo critica diretta nei confronti del divario generazionale e della condizione dei giovani in Italia (temi tra l’altro ripresi nel più recente L’incredibile storia dell’isola delle rose), ma è in grado oltremodo di raccontare il mondo dell’università satiricamente, ponendo l’attenzione sulla sua maltrattata e ignorata condizione, che da anni, come un agnello sacrificale, conosce solo tagli e scarsa riconoscenza da parte delle istituzioni.
I protagonisti sono rappresentati come self-made-men in una Roma quasi da western dove la legge vige in virtù del più forte e, in questo caso, del più intelligente. Sibilia pone al centro una questione rilevantissima: se non sono cervelli in fuga, cosa sono questi giovani ricercatori? E andando ancora più a fondo: veramente quelli che studiano, che vivono per la ricerca necessaria allo sviluppo della collettività e dell’umanità intera in generale, sono ridotti a una vita precaria e costretti a reinventarsi? Forse Sibilia non arriva fino a questo punto, ma di per sé la frase detta verso il finale da Edoardo Leo, «mi servivano solo i soldi per comprare una lavatrice», dopo tutta la missione in cui protagonisti vanno a immischiarsi, è prerogativa e ironica conclusione di un messaggio molto chiaro: come si è ridotta la vita per chi studia oggi, in Italia.
Aldilà del sottofondo critico, nella sua summa la saga è adrenalinica, avvincente, ben impostata, e soprattutto Sibilia, insieme al suo comparto tecnico (da Valerio Attanasio come co-sceneggiatore, al talentuoso Vladan Radovic per la fotografia), è in grado di produrre una serie di film che attraversa ogni genere cinematografico e televisivo: il thriller-western del già citato Breaking Bad, con una punta di estetismo psichedelico di Trainspotting e Requiem for a dream, nel primo capitolo; fino ad arrivare alla commedia goliardica, nera per certi versi, e al film investigativo neomoderno del piccolo schermo (pensiamo a Sherlock, La Casa di Carta, Mindhunter) negli ultimi due capitoli.
Ogni film si lega all’altro in modo perfetto, passando da un genere a un altro, sfruttando magistralmente la narrazione di flashback.
Sydney Sibilia crea così un’opera totale sul destino dei giovani e sulla loro condizione, sulla realtà degradante della Ricerca (con la R maiuscola), non risultando mai deprimente o stancante, bensì puntando a una narrazione da roller coaster con colpi di scena e un tocco comico che dona nel complesso una visione godibilissima e anzi, per questo, molto più comprensibile nel dare il suo messaggio. Lode ai giovani, il futuro del nostro paese, Smetto Quando Voglio può anche essere chiamato “Smetterei, se potessi”: come un tossicodipendente schiavo della sua sostanza, infatti, il mondo dell’università è schiavo del sistema italiano che gli blocca le ali.