Il Canto degli Italiani, appreso anche con il nome di “Fratelli d’Italia” o semplicemente “Inno di Mameli” è considerato l’inno nazionale della Repubblica Italiana. Il testo venne scritto nell’autunno del 1847 dal giovane studente e patriota Goffredo Mameli, dopo aver scartato l’idea di adattarlo a musiche già esistenti, nel settembre del 1847 lo inviò a Torino nella casa del patriota Lorenzo Valerio, dove si trovava anche il maestro genovese Michele Novaro, il quale sedotto dalle parole decise di metterlo in musica. L’Inno di Mameli fu spesso simbolo della rinascita di un Paese che si risollevava dalle macerie materiali di una guerra e da quelle morali di una dittatura, ma con la Costituzione che entrò in vigore nel 1948, a causa delle divergenze politiche non si riuscì a fare una scelta definitiva in suo riguardo. Il conseguimento dello status di inno nazionale provvisorio del Canto degli Italiani portò a numerose critiche tanto che per più volte ne venne chiesta la sostituzione o addirittura la stesura di uno nuovo. Nonostante i vari tentativi di disegno di legge per renderlo una istituzione ufficiale non siano ancora effettivi, oggi è popolarmente riconosciuto come Inno ufficiale d’Italia.
Michele Novaro e Goffredo Mameli non lavorarono insieme, Novaro allora operava nei teatri torinesi, con una chiara e limpida idea della scena, del moto, della trama, delle masse che si muovono: egli vide un testo e lo trasformò in azione, scrisse la partitura nella sua stanza di via Roma a Torino. Ma quale fu davvero la scena che egli volle tradurre in partitura? L’immagine che gli apparve fu quella di italiani disparatamente stanziati in una pianura, e poi di un improvviso segnale di allarme, seguito da un rullo di tamburi e squilli di tromba in ripetizione alternata, come un colloquio intermittente che cattura lo sguardo di persone volte verso una figura al trono, con le proprie braccia levate come se volesse cingere l’intera popolazione. La vibrazione costante cerca di invitare al suono espressivo. Forte, energico, un appello ai fratelli di Italia: l’intento infatti è quello di coinvolgere milioni di poveri e pezzenti, gli ultimi d’Europa, divisi in sette stati, “calpesti e derisi”, incitati a prendere le armi contro l’Austria.
E così il canto si impone sulle note che lo compongono, e il colpo di genio di Novaro arriva solo dopo la prima strofa, quello che tutti traducono come un simpatico “po-po-po”.
Queste note ribattute sono l’effetto di parole sul cuore della gente, come pugni sullo stomaco stravolgono l’animo collettivo, l’allegro marziale si trasforma in allegro mosso pianissimo e molto concitato, e tutto cambia, e cantarlo con medesimo tono è un fallace scivolone: l’Italia è l’unica nazione al mondo ad avere un inno che si erge sulla caricatura di ben due protagonisti: una voce che chiama ed un popolo che risponde. Quando una notizia incredibile giunge a destinazione, un incredulo punto interrogativo si genera inesorabilmente: la gente ha paura, e per questo si ripete. L’idea della battaglia è surclassata da quella terrorizzata della morte. Poi il miracolo, il popolo assume una nuova consapevolezza, rompe ogni indugia, accelera e la voce si alza progressivamente, come una sorta di percorso autoconvincente di base e vincente di meta. Il grido di un “sì” aggiunto da Novaro alla poesia originale di Mameli, come un perdonato suggello additivo al giuramento finale. Nel minuto della prima strofa dell’inno è contenuto tutto il risorgimento italiano: lo spirito di rinascita, il sacrificio di realizzazione e l’arduo, assiduo e incontentabile percorso di unificazione.
«Là, senza neppure levarmi il cappello, mi buttai al pianoforte. Mi tornò alla memoria il motivo strimpellato in casa Valerio: lo scrissi su d’un foglio di carta, il primo che mi venne alle mani: nella mia agitazione rovesciai la lucerna sul cembalo e, per conseguenza, anche sul povero foglio; fu questo l’originale dell’inno Fratelli d’Italia.[…]»
Michele Novaro
Gli ultimi giorni si sono snodati in esultanze tricolori ritmate da questo medesimo canto, le quali si sono intensificate esponenzialmente in seguito alla vittoria della squadra italiana al campionato europeo di calcio 2020. Una gloria definita come grandiosa, meritata e, perché no, anche dispettosa, come a forare un velo ulteriore di frizione tra la ormai straniera Inghilterra post Brexit e la lacerata UE post pandemia. E l’inno tanto fischiato dagli inglesi a Wembley è apparso alla nostra percezione allegra e patriottica come il più percettibile indizio di riscatto, nonostante ci sia implicitamente ovvio che un incontro calcistico, un gioco sportivo, mai potrà assestare quanto di avariato sussiste nel Paese.
Cantato fuori ritmo dai calciatori della Nazionale italiana, spesso sbiascicato nei primi piani nonostante sia prerequisito di decenza da impartire a fin di garantire non solo una degna figura generale al pubblico planetario, ma anche un’onesta conformità alla propria origine, il canto degli italiani si rinforza di passionale encomio, ma si indebolisce a livello di coscienza di sé, perde ogni brandello di istituzione mai autoritaria ma autorevole qualora necessario. Sono soprattutto gli utenti americani a commentare, stupendosi della passione con cui gli Azzurri interpretano l’inno italiano; ne apprezzano grinta, occhiate, indole esibite. In pochi capiscono il testo, non conoscendo la nostra lingua. Ma poco importa, per loro conta quella robustezza scoperta in quegli attimi che precedono l’inizio della partita. Diventa inspiegabilmente un motivetto orecchiabile e baldanzosamente spassoso, affrontato con sorrisi sornioni e mani sul cuore, come a canzonarsi in autonomia, di fianco al rigoroso e grave canto britannico adulatorio alla regina, monocorde ma mai giocondo. Eppure, i tifosi non se ne accorgono, e lo cantano a squarciagola, quasi fondendosi con il momento, ma non con il testo, perché?
Perché a differenza dell’inno inglese, quello italiano è difficile, e tale difficoltà spesso lo localizza in un’aria da canzonetta, quando, tra i tanti, è uno degli inni più possenti di significato che siano mai esistiti, ricco di storia come anche di sostenuta base culturale.
Grande enigma sorge quando si scopre che il componimento lirico di Mameli fu inizialmente adattato dal grande maestro Giuseppe Verdi, senza innalzare alcun successo per persistere nel tempo. Infatti, dinanzi ad un inno nazionale mai bisognerebbe applicare i criteri con i quali si giudica una qualsiasi altra opera d’arte. Questo deve avere una sola funzione: aggregare la collettività intorno ad un’idea, come poi ci riesca è secondario se non indifferente.
L’inno commissionato da Mazzini a Verdi durò non più di un mese per poi svanire nella memoria collettiva, perché la gente è l’unico attore che legittima un inno, e la indescrivibile alchimia riuscì a trovarla solamente Michele Novaro. Pochi furono i compositori illustri che firmarono inni tuttora in vigore, solitamente si tratta di prodotti di seconde file, dilettanti e impensabili artigiani. Il nostro inno non è una marcetta, ma un maestoso e solenne canto di popolo che la Repubblica ha consegnato senza istruzioni per l’uso, facendolo appesantire di un motivo marziale che non gli rende giustizia. La collocazione dell’impressionabilità nella partitura che Novaro realizza non è un balbettio sinfonico, ma un invito alla libertà da conquistare, seguito da una scossa che agisce sul dialogo con grande enfasi. Un inno carnale, con l’elisione che scandisce la disposizione dell’esercito romano a corte, un motto invocante l’unione, contro lo stesso “dividi et impera”.
La frazionata Italia del risorgimento festeggia così un nuovo inizio, e l’inno è libero e memorabile per permettere che tale unità non muoia mai nella memoria politica della nazione. E poi la lingua, celebrata dal suono, è la più possente orma di identità, alimentata da un fervore che avvolge cattolicesimo e liberalismo in un esclusivo manto musicale, breve e intenso, coinvolgente e purtroppo imperfetto, ma che seppur non ancora ufficializzato de iure, rimane il canto preferito dai cittadini italiani e non solo, che seppur non amanti del calcio, alle volte non riescono proprio a trattenersi dal cantarlo in coro davanti alla televisione, prima dell’inizio di ogni partita, in senso letterale e figurato. Guastati e paradossali, gli italiani non rinunciano alla tradizione, anche quando scarsamente recettivi e capaci di discernere le varie sfere di competenza, e forse è proprio una tale prestanza di ingenuità a scatenare irresistibile attrattiva dell’uditorio straniero.
«Italians lose wars as if they were football matches, and football matches as if they were wars»
Winston Churchill