Del: 25 Luglio 2021 Di: Elisa Letizia Commenti: 0

Il 29 luglio ricorre l’anniversario di morte di Luis Buñuel, intellettuale ed artista madrileno, regista dello scandalo e testimone della storia e della cultura spagnola del suo tempo. 

Nasce il 22 febbraio del 1900 nel piccolo paese di Calanda in Aragona, terra di provincia che il regista ama, poiché da sempre è legato al luogo della campagna, agli odori della terra: lui stesso si definiva un contadino strappato anzitempo alla terra. Buñuel cresce in un ambiente dove coesistono diverse tradizioni: quella rurale del padre, uomo dal temperamento autoritario, eppure di idee liberali; e quella borghese della madre, una donna pia e devota. Vive un’infanzia agiata, scandita dalla monotonia della vita quotidiana di provincia, anche se marcata dal segno della morte e della religione, elemento onnipresente nella sua vita e nei suoi film, dato che la Spagna e cultura spagnola stesse erano pervase dall’ultra-cattolicesimo e da un tradizionalismo dei valori: patria, dio e famiglia erano gli elementi fondamentali nella vita del popolo spagnolo.

Già da piccolo dimostra la sua avversione nei confronti di un ambiente religioso estremo.

Per le sue idee anticlericali, infatti, e per il comportamento disordinato, nel 1915 viene espulso dal collegio e termina gli studi nella scuola pubblica. Si trasferisce a Madrid e terminato il liceo si iscrive all’università. Il soggiorno a Madrid è stato il periodo d’oro della sua vita: giovane e pieno di vigore, viene a contatto con un mondo nuovo, dinamico e fantastico; grazie alle varie residenze studentesche nelle quali di volta in volta alloggiava comincia a conoscere e frequentare un gruppo di giovani: Garcia Lorca, Rafael Alberti, Pepin Bello, Moreno Villa e Salvador Dalì. Buona parte della sua formazione personale e intellettuale la deve proprio a questa esperienza. 

Dopo il suo esilio, si reca a Parigi dove viene a contatto con una realtà completamene diversa rispetto a quella madrilena e spagnola: Parigi è una nuova entusiasmante scoperta per Luis, l’esilio volontario rappresenta per lui un forte contrasto, da una parte la nostalgia della Spagna, dall’altro il fascino della nuova capitale del mondo intellettuale e artistico. Qui si concretizza la sua vocazione cinematografica attraverso le opere di Murnau, di Clair e di Cavalcanti. Il primo contatto diretto con il cinema lo ha grazie ad un giovane polacco, Jean Epstein, lo aiuta nei film Mor Vran e La Chute de la maison Usher.

Buñuel e Salvador Dalì entrano a far parte ufficialmente del movimento surrealista. Da questo entusiasmo nasce un film, Un chien Andalou, una serie di scene da lui create, una diabolica successione di immagini con il deliberato proposito di colpire lo spettatore e di aprire un nuovo tipo di percezione estetica film, senza una trama vera, si svolge come in un sogno, allineando sequenze scioccanti o erotiche insieme ad altre apparentemente irrelate. La famosissima scena in cui un uomo (lo stesso Buñuel) taglia con un rasoio l’occhio di una donna, è talmente forte da far scoppiare tumulti e risse nelle sale dove si proietta.

Due anni dopo sulle ali di quel successo la coppia realizza L’age d’or, con immagini fortemente anticattoliche, una rivendicazione dell’amore opposto alla costrizione del moralismo e del progresso opposto all’oscurantismo, il film causa grande scandalo, ma scandalo assai ben più grande causa negli ambienti culturali di Parigi, l’improvvisa inattesa e definitiva rottura tra Bunuel e Dalì.

«Eravamo come due fratelli, ci intendevano e lavoravano in perfetto accordo, poi si interpone fra noi l’influenza dell’attuale moglie, Gala, io, d’altro canto, ero ormai lontano dal suo modo di vedere e giudicare le cose, perciò feci quasi tutto secondo il mio gusto personale».

Nel 1932 Buñuel torna in Spagna e vi trova una terra dominata dalle agitazioni politiche e sociali.

Proprio in questo periodo comincia a delinearsi la presa di coscienza: abbandonate le metafore surrealiste, con l’aiuto di un amico anarchico, Ramón Acín, che gli ha messo a disposizione 20.000 pesetas vinti alla lotteria, Buñuel gira Las Hurdes, (Terra senza pane, 1933), un mediometraggio profondamente realista che costituisce un’impressionante documento di critica sociale e di denuncia delle condizioni inumane in una delle regioni più miserabili della Spagna: Las Hurdes, («il luogo più triste e dimenticato del mondo») i cui abitanti versano in condizioni di povertà assoluta, devastati dalla fame, dalla sporcizia, dalle malattie, isolati dal mondo, in case basse scavate nella pietra con i tetti che sembrano gusci di tartarughe (da cui il titolo del film). Nei paesaggi impervi di Las Hurdes la piccola troupe scopre così una comunità primitiva, ancora legata a rituali per certi versi barbarici (il rito di passaggio per diventare grandi consiste ad esempio nello stappare la testa dal collo a un gallo vivo legato a testa in giù) e afflitta da nanismo, malnutrizione, idiozia.

La realizzazione di questo film non sarebbe stata possibile senza prima passare per il surrealismo, infatti questo non si limitava ad essere un movimento poetico, a sfruttare i sogni e la scrittura automatica ma era anche e soprattutto un movimento profondamente sociale e morale, per questo Las Hurdes è un film che rientra nel campo surrealista. 

«La morte si nasconde in ogni angolo – dice a un certo punto Buñuel – e non esce se non la obblighiamo»: così, pur di catturare anche quella parte di realtà che non si vede a prima vista (compresa la presenza ubiqua della morte), Buñuel arriva a forzare il reale, a provocarlo, magari distruggendo con un colpo di pistola l’alveare da cui escono le api che poi divoreranno l’asino che portava l’alveare sulla schiena. È il surrealismo portato all’estremo, è lo svelamento della faccia nascosta del reale. Il disegno stilizzato, con una prevalenza di colori pastello, ha una densità poetica commovente e la storia sa avvincere e catturare l’attenzione.

Nei suoi lavori spesso esprime tendenze chiaramente antifasciste, contrarie al clima franchista spagnolo e fascista in alcune parti d’Europa. Il diario di una cameriera (1964) è probabilmente il lavoro più apertamente antifascista: una storia ambientata in un clima moralmente degradato e culla di nevrosi e pulsioni inconfessabili più o meno represse, che termina inaspettatamente con la “vittoria” dell’antagonista Joseph, pedofilo assassino, fascista xenofobo e antisemita, che verrà scagionato dalle accuse per insufficienza di prove e riuscirà anche a coronare il suo sogno di tornare nel paese natale per aprire un bar; nell’ultima scena Joseph assiste ad una parata antisemita che acclama. Inaspettatamente l’antagonista ne esce vittorioso, eppure la sua vittoria personale non rappresenta altro che la sconfitta dell’uomo, per la giustizia, per l’umanità, per un intero mondo che stava per cadere nell’oblio del nazifascismo.

Luis Buñuel esprimeva ancora una volta e forse in maniera più chiara che mai tutto il suo disprezzo nei confronti della borghesia, del clero, del potere, dell’esercito e dell’economia, creando un film contro l’intolleranza e contro i fascismi, contro l’antisemitismo, contro la religione. 

Geniale nell’uso di una feroce ironia per smascherare i vizi del potere, ha firmato capolavori crudeli e grotteschi. Buñuel è qualcuno che ha sempre cercato di non fare nulla di rassicurante. È l’ironia, l’umorismo, la passione con cui ha osservato, interrogato, scavato il mondo, smascherandolo e capovolgendone il senso. A questo proposito il cantante recentemente scomparso Franco Battiato ne parlava così: «Il suo genio… la sua piena personalità la vediamo credo all’angelo sterminatore, la completezza, l’esplosione del Buñuelismo, però devo dire che i suoi modelli così originali hanno una meccanica che mai si era vista nel cinema, e non si vedrà mai più, ha cose estreme, potrebbero sembrare cose violente ma non lo sono nel suo mondo, Il cinema di Bunuel è complesso». 

Elisa Letizia
Sono Elisa, studio lingue, appassionata d'arte, musica e cinema. Nel tempo libero scrivo del presente e lavoro per costruire il mio futuro.

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