Del: 10 Luglio 2021 Di: Beatrice Balbinot Commenti: 0

Racconta Marco Polo verso la fine del suo viaggio attraverso le Città Invisibili: 

Si tramanda a Bersabea questa credenza: che sospesa in cielo esista un’altra Bersabea, dove si librano le virtù e i sentimenti più elevati della città, e che se la Bersabea terrena prenderà a modello quella celeste diventerà una cosa sola con essa. L’immagine che la tradizione ne divulga è quella d’una città d’oro massiccio, con chiavarde d’argento e porte di diamante, una città–gioiello, tutta intarsi e incastonature, quale un massimo di studio laborioso può produrre applicandosi a materie di massimo pregio. Fedeli a questa credenza, gli abitanti di Bersabea tengono in onore tutto ciò che evoca loro la città celeste: accumulano metalli nobili e pietre rare, rinunciano agli abbandoni effimeri, elaborano forme di composita compostezza.

Credono pure, questi abitanti, che un’altra Bersabea esista sottoterra, ricettacolo di tutto ciò che loro occorre di spregevole e d’ingegno, ed è costante loro cura cancellare dalla Bersabea emersa ogni legame o somiglianza con la gemella bassa.

[…] Nelle credenze di Bersabea c’è una parte di vero e una d’errore. Vero è che due proiezioni di se stessa accompagnino la città, una celeste e una infernale; ma sulla loro consistenza ci si sbaglia. L’inferno che cova nel più profondo sottosuolo di Bersabea è una città disegnata dai più autorevoli architetti, costruita coi materiali più cari sul mercato, funzionante in ogni suo congegno e orologeria e ingranaggio, pavesata di nappe e frange e falpalà appesi a tutti i tubi e le bielle.

Intenta ad accumulare i suoi carati di perfezione, Bersabea crede virtù ciò che è ormai un cupo invasamento a riempire il vaso vuoto di se stessa; non sa che i suoi soli momenti d’abbandono generoso sono quelli dello staccare da sé, lasciar cadere, spandere. Pure, allo zenit di Bersabea gravita un corpo celeste che risplende di tutto il bene della città, racchiuso nel tesoro delle cose buttate via: un pianeta sventolante di scorze di patata, ombrelli sfondati, calze smesse, sfavillante di cocci di vetro, bottoni perduti, carte di cioccolatini, lastricato di biglietti del tram, ritagli d’unghie e di calli, gusci d’uovo. La città celeste è questa e nel suo cielo scorrono comete dalla lunga coda, emesse a roteare nello spazio dal solo atto libero e felice di cui sono capaci gli abitanti di Bersabea, città che solo quando caca non è avara calcolatrice interessata. 

La vita di Bersabea è una vita schiacciata sotto il peso di un modello autoimposto e non reale, che impedisce di vedere che la bellezza delle cose sta negli scarti, in tutto ciò che da quel modello si distacca e si differenzia. La città infernale ha una bellezza geometrica neanche lontanamente immaginata e il tesoro che si trova allo Zenit è ben diverso da quello che credono gli abitanti della città: è un’umanità rifiutata, bellissima e preziosa. 

Bersabea, ad ascoltarla bene, ci parla attraverso la carta, parte di quell’inesauribile polisemia che le città invisibili di Italo Calvino schiudono ad ogni pagina.

La città che «solo quando caca non è avara calcolatrice interessata» è la nostra, chiusa nella morsa di un’ideologia che rimpicciolisce la dimensione umana alla sola capacità di realizzare un modello che qualcuno, una volta, definì quello ideale. 

Di neoliberismo si parla da quarant’anni e troppo spesso si fa l’errore di credere che si tratti solo di un capitolo di storia, una parte come tante di un manuale che non ci interessa più. Ma il neoliberismo, subdolo e silenzioso, preserva la sua attualità, con ricadute particolarmente disastrose sul versante sociale. Infatti, sebbene questa dottrina nasca come una teoria economica, la sua prospettiva sul mondo ha investito, in passato come oggi, più dimensioni della società radicandosi tanto in profondità da affermare una rivalutazione dell’individuo.

Digitando “neoliberismo” sulla barra di ricerca Google la prima definizione che si incontra è la seguente: «Indirizzo di pensiero politico ed economico che, individuando nelle concentrazioni monopolistiche e nell’intervento massiccio dello stato sull’economia le cause primarie delle violazioni alla libera concorrenza, propugna il ripristino dell’effettiva libertà di mercato attraverso una politica di deregolamentazione». Ma indagando ci si accorge di come sotto questa prima spiegazione ci sia ben altro.

Un mantra riecheggia tra le colpe di questo pensiero economico: «Sii imprenditore di te stesso».

Per Friedrich Von Hayek, grande teorico del neoliberismo e vincitore del premio Nobel per l’economia del 1974, la società si regge sull’azione individuale, finalizzata al raggiungimento di un obiettivo, e qualsiasi tentativo di limitare questa iniziativa (da parte dello Stato ad esempio) è fallimentare. L’accento è posto tutto sul soggetto, chiamato a realizzarsi, a trasformarsi in una donna o in un uomo felice, ad attualizzare un modello perfetto con le sue sole forze. «Non esiste la società, solo gli individui», recita una celebre frase di Margaret Thatcher. Il risultato è un agghiacciante rimpicciolimento della concezione di essere umano, che viene colto e valutato soltanto secondo la sua capacità di fare, di costruire la sua propria felicità, dell’essere propositivo.

Il concetto di meritocrazia viene portato alle sue massime, pericolose conseguenze: l’individuo e la sua capacità di affermarsi sono le uniche cose che contano, e laddove ciò non avviene, laddove il successo non viene raggiunto, la colpa ricade tutta sulle spalle della persona, passibile e anzi meritevole di essere considerata uno scarto. Il rischio, che spesso ormai coincide con la realtà, è quella della celebrazione di alcuni privilegi (l’essere abile, l’essere uomo, l’essere bianco, l’essere ricco) in una società – o meglio: in un insieme di individui – che allontana da sé con paura colui che ha fallito, quasi fosse un elemento marcio in grado di mandare in cancrena tutto quello che gli si avvicina. Il successo assume un valore assoluto e totalizzante, arrivando ad occultare fattori ambientali che giocano un ruolo fondamentale nel quadro del raggiungimento di un obiettivo e appiattendo la realtà degli eventi sociali ad una visione incompleta e semplicistica.

L’individuo, l’homo perficiens, è estratto dal contesto ed è posto solo, nudo, potendo contare esclusivamente sulle sue abilità sotto il vaglio severo della meritocrazia. A ben vedere non è difficile scorgere un legame tra questo modo di concepire il valore della persona e il gioco di ostentazioni che si perpetra ogni giorno sui social. Il consiglio, anzi l’imperativo, è quello di farsi vedere sempre al meglio, sempre felici, sempre belli e sorridenti.

Tutto quello che può farci assomigliare ad un fallimento, che può avvicinarci a quell’immagine di città infernale che gli abitanti di Bersabea credono esistere sotto le fondamenta, è da buttare, da allontanare, da nascondere.

Da questa prospettiva sembra possibile spiegarsi anche il grande successo di molta musica trap o rap, i cui testi spesso si propongono di affermare la ricchezza del soggetto o il fascino ammaliatore esercitato sulla ragazza di qualcun altro. In questa narrazione della felicità si perdono i pezzi di un’umanità ben più complessa di quanto si ostenta, in cui il successo dipende certamente anche da fattori ambientali che esulano dal potere dell’individuo. 

Stiamo facendo la fine di Bersabea, e neppure ce ne accorgiamo.

Beatrice Balbinot
Mi chiamo Beatrice, ma preferisco Bea. Amo scrivere, dire la mia, avere ragione e mangiare tanti macarons.

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