
La situazione in Afghanistan, a pochi giorni dal ritiro delle truppe occidentali, è ancora frenetica. Dopo settimane di tensione, un attentato terroristico e la chiusura dei primi ponti aerei, l’opinione pubblica è tuttora concentrata su Kabul, specialmente negli Stati Uniti, che nell’attentato dell’ISIS-K del 26 agosto hanno perso 13 soldati, il più alto numero da oltre dieci anni. Il ritiro degli eserciti occidentali dall’Afghanistan è stato un completo insuccesso, frutto di errori di calcolo – in parte forse prevedibili – i cui responsabili sono difficili da individuare.
Eppure è proprio sulle responsabilità che il dibattito pubblico sembra vertere, ed in particolare sulle responsabilità del presidente americano Joe Biden, criticato aspramente sia dai repubblicani sia dai colleghi democratici per la troppa fretta e imprecisione con cui il ritiro è stato gestito. Alcuni analisti tendono però a difendere l’operato di Biden, ritenendo che quest’ultimo avesse le mani legate da quanto deciso nel precedente mandato dal suo predecessore, Donald Trump. Altri fanno risalire la responsabilità dell’insuccesso moderno addirittura a Barack Obama, il primo presidente ad impegnarsi nel ritiro delle truppe dall’Afghanistan.
Vent’anni di guerra, 2.000 miliardi spesi, decine di migliaia di morti: per capire di chi è davvero la ”colpa” bisogna provare a guardare agli ultimi quattro presidenti americani, ripercorrendo le loro scelte e le loro strategie, fino ad arrivare ai giorni nostri.
George Bush (2001-2009)
Il repubblicano George Bush si è trovato ad affrontare il disastro delle Torri Gemelle a pochi mesi dall’inizio del suo primo mandato alla Casa Bianca. È stato dunque lui il presidente americano che ha dato inizio alla guerra in Afghanistan, per combattere i terroristi di Al Qaeda ospitati nel Paese dai talebani: con l’operazione Enduring Freedom, Bush inaugura a quella che verrà poi ribattezza ”Guerra al terrorismo”: una serie di operazioni militari, condotte dagli USA di concerto con altri membri della NATO, concentrate in Africa e Medio Oriente per rispondere all’attacco dell’11 settembre.
Nel 2003 i combattimenti veri e propri cessano e la NATO intraprende il percorso per la creazione di una Costituzione, di un governo e di un esercito afghano. La presenza americana in Afghanistan viene però rafforzata di anno in anno e, mentre il debito pubblico cresce, inizia la crisi del 2007-2008.
Barak Obama (2009-2017)
Nella prima tranche del suo mandato, il democratico Obama decide di intensificare la presenza americana nel territorio afghano per mettere alle strette i talebani, ancora presenti nel Paese ma sempre più deboli. Oltre che con le armi, per combattere Al Qaeda Obama punta a stringere relazioni sempre più solide con il vicino Pakistan, dove infatti nel 2010 Abdul Ghani Baradar (capo politico dei Talebani) verrà imprigionato e nel 2011 Osama Bin Laden ucciso.
Con l’uccisione di Bin Laden, gli USA ritengono diminuito il pericolo rappresentato da Al Qaeda, mentre tengono sotto controllo l’Afghanistan dalla minaccia talebana con l’aiuto delle milizie NATO. Avendo raggiunto una certa stabilità nel Paese, nel 2014 Obama annuncia l’inizio del ritiro delle truppe americane dall’Afghanistan, da completarsi entro il 2016. Il presidente esprime poi la volontà di addestrare e responsabilizzare l’esercito afghano finché sarà necessario, in modo da proteggere la nascente economia e il livello di rispetto dei diritti umani raggiunto: per questo nel 2015 annuncia di voler ritardare il ritiro completo dei soldati dal Paese, mantenendo dal 2017 solo alcune migliaia di uomini per continuare nelle operazioni di state-building.
Donald Trump (2017-2021)
Quando il repubblicano Donald Trump diventa presidente, il piano di riduzione delle truppe americane inaugurato da Obama si è appena completato: sul suolo afghano sono presenti circa 5500 soldati americani, tutti impegnati nell’addestramento dell’esercito afghano e nel supporto al nascente governo.
Ma il nuovo presidente americano non condivide la strategia del suo predecessore, poiché dall’inizio dei combattimenti sono passati ormai 16 anni, durante i quali la spesa militare è cresciuta gravando sulle spalle degli americani. Trump, eletto al suon di ‘‘America first”, vuole liberarsi in fretta del peso dell’Afghanistan, diventato ormai una spesa difficile da giustificare agli occhi degli elettori. Ecco perché in un primo momento rafforza la presenza militare nel Paese, deciso a indebolire i Talebani il più possibile, per poi operare una drastica riduzione delle milizie ed intraprendere una nuova strategia diplomatica: inizia la discussione sugli Accordi di Doha.
Con gli accordi di Doha, siglati nel febbraio 2020, l’Amministrazione Trump inverte completamente la rotta intrapresa dai suoi predecessori, decidendo di iniziare a contrattare la pace direttamente con i temutissimi talebani: al tavolo in cui gli Accordi prenderanno forma, il governo di Kabul, presieduto da Ashraf Ghani, non viene neppure invitato. In questo modo, l’Amministrazione Trump legittima i talebani, riconoscendo loro una posizione nel panorama internazionale tanto importante da poter trattare un accordo con il governo degli Stati Uniti. Allo stesso tempo, il nuovo Governo afghano viene fortemente indebolito, non essendo stato neanche preso in considerazione nella contrattazione della pace nel suo stesso Stato: un governo già profondamente instabile, che dal 2014 è sempre tra i primi posti nell’indice della corruzione stilato da Transparency. A Doha, gli Stati Uniti promettono di ritirare tutte le truppe americane dal suolo afghano entro il 2021, in cambio dell’impegno dei talebani a non far operare Al Qaeda sul territorio afghano.
Joe Biden (2021-)
Un anno dopo la firma a Doha, gli Accordi di Trump non hanno dato i risultati sperati, eppure Joe Biden è deciso a proseguire il ritiro definitivo delle truppe dal Paese entro l’11 settembre 2021. Il ritiro non si ferma di fronte alla pericolosa avanzata talebana, che già a luglio si affretta verso le porte di Kabul. E così, quando ad agosto i Talebani entrano nella capitale, l’esercito afghano si è arreso ed il governo caduto, la giovane amministrazione Biden non può far altro che organizzare un frettoloso, pasticciato ritiro, imposto non solo alle proprie truppe e al personale diplomatico, ma a tutti i membri NATO e non più entro l’11 settembre, bensì entro il 31 agosto. A più riprese i vertici inglesi, tedeschi, olandesi, tentano di convincere gli americani a contrattare con i talebani un rinvio della data per il ritiro, che consenta di mettere in salvo tutto il personale straniero e afghano dalla minaccia talebana. Un rinvio che i membri NATO non riescono ad ottenere.
L’intelligence occidentale sembra sorpresa di fronte alla velocità con cui i Talebani hanno riconquistato Kabul, rendendo di fatto gli ultimi 10 anni di guerra sostanzialmente inutili. Ma non solo: anche Al Qaeda si è congratulata con i Talebani per la riconquista del territorio, facendo intendere che le relazioni tra i due gruppi siano pronte a ricominciare e rendendo di fatto non solo gli Accordi di Doha, ma l’intera spedizione iniziata nel 2001, un completo fallimento.
Di chi è dunque, la ”colpa”? Come ha sottolineato su Twitter Ian Bremmer, analista e accademico americano, la colpa è di tutti e di nessuno: sta a Biden per aver organizzato una ritirata frettolosa, a Trump per aver stilato degli accordi pericolosi, a Obama per non aver fatto cessare la guerra nel 2011, dopo la morte di Bin Laden e il completamento della missione contro Al Quaeda, a Bush, per aver iniziato una guerra scomoda e inutile, ma soprattutto a tutti coloro che hanno consigliato ed incoraggiato le amministrazioni degli ultimi 20 anni a continuare la guerra, per un proprio tornaconto personale.
Cosa accadrà domani, è assolutamente incerto: i talebani promettono di instaurare un governo più moderato, di rispettare i diritti delle donne e delle minoranze, di abbandonare il terrorismo internazionale e il contrabbando di armi e droga. Eppure, a pochi giorni dalla ritirata dell’ultimo soldato americano da Kabul, la musica è di nuovo vietata in Afghanistan.