Dopo otto anni dall’inizio dei cantieri, le nuove fiammeggianti Twin Towers, a opera dell’architetto Minoru Yamasaki, svettano dominanti sullo skyline di New York modificandone completamente il profilo. I newyorkesi del 1974 si dividono in due: chi apprezza quella straordinaria opera architettonica, entusiasmandone la sua imponenza e la sua centralità nell’economia internazionale come maggior simbolo della grandezza americana nel mondo; e chi, al contrario, condanna il progetto in toto, definendo i grattacieli come “schedari di vetro e metallo”, centro dell’economia globalizzata che ammazza i sogni di molti abitanti dell’isola di Manhattan, i quali fino a quel momento abitavano la zona portando avanti una vita semplice e artigianale.
Le Torri Gemelle non fanno che imborghesire e chiudere Manhattan nella sua torre d’avorio fatta di capitalismo sfrenato e gigantismo esagerato, un simbolo estremo del potere costituito, insomma l’ennesima dimostrazione della megalomania americana.
Poi c’è Philippe Petit.
Artista, funambolo, circense francese di umili origini che invece vede le nuove Torri Gemelle come prova per ritrovare fiducia nel mondo e, forse, anche in sé stesso, aldilà delle convenzioni ideologiche. È in un filo teso a oltre quattrocento metri, dai due punti estremi delle Torri, che viene esternata tutta la lucida follia di Petit; ha la ferma convinzione che il WTC prenda forma e vita solo con una manifestazione adrenalinica e pirotecnica, l’unico modo che trasforma per un attimo quegli “schedari di vetro e metallo” in un organismo vivo e magico.
Nel 2015 Robert Zemeckis (Ritorno al futuro, The Polar Express, Forrest Gump, Cast Away) immortala l’impresa nel film The Walk, con interpreti Joseph Gordon-Levitt, Ben Kingsley e un’incantevole Charlotte Le Bon. Nel complesso il regista americano riesce nell’intento e cattura nel film l’intera anima dell’opera di Petit, cogliendo i prodromi e le insicurezze che accompagnano un’azione del genere, senza però cadere nel cliché avventuristico e, stranamente, patriottico.
Sì, perché quando si parla di Torri Gemelle, dal 2001 in poi, tutto gira attorno alla loro distruzione, a quel drammatico 11 settembre che vede sgretolare le certezze su cui si basava l’Occidente intero. Zemeckis al contrario dona un’anima alle Torri, esaltandone la complessità ingegneristica tramite l’operazione di Petit, senza però necessariamente dare un taglio vittimista alle co-protagoniste dell’opera.
Il film riesce invece nella sua ammirazione nostalgica del complesso del WTC, innalzandone anzi i valori umani, non solo economici e tipicamente americani, ma anche artistici, girando intorno alle guglie delle Torri e dandone una visione totale.
Il capolavoro di Yamasaki, vicino alla corrente stilistica di Le Corbusier, con le sue finestrelle strette solo 46cm, e le sue vertiginose altezze smisurate, vuole rappresentare non solo l’intoccabile sommità che l’uomo riesce a raggiungere con la sua geniale inventiva, ma suscita anche un senso di vera e propria vertigine (di cui Yamasaki soffriva) dove le Torri avevano lo scopo di accogliere, nel loro abbraccio di acciaio, il visitatore ammaliato ma anche spaventato dall’estrema altezza, suscitando così il senso di sicurezza e solidità.
Nella pellicola di Zemeckis ci sono dunque più opere d’arte: quella architettonica, quella funambolica e quella cinematografica. Quest’ultima è ben eseguita e per niente disturbante, la CGI è anzi godibile rendendo il film una testimonianza, pur sempre narrata, di un’esperienza non solo adrenalinica, non solo di per sé pazzoide, ma encomiabile. Un inno all’arte umana che vince sugli “schedari”, sulla brutalità, e che riesce nella sua metafora del “filo” come punto di congiunzione di due estremi; come a indicare che l’uomo solo attraverso la creatività con cui opera riuscirà a superare le barriere culturali evitando di cadere nel baratro più profondo dell’ignoranza.
Film che dunque deve rendere grazie anche a Philippe Petit e alla sua impresa, di per sé poetica e autocelebrativa, ma sarebbe riduttivo ignorare la bravura di Zemeckis nel riuscire a catturare le storie nelle sue sfumature più affascinanti e favolistiche (vedi Forrest Gump, The Polar Express o la trasposizione del libro di Dickens, A Christmas Carol) che rende giustizia a una trama sicuramente da rivedere per la prima volta come emblema della supremazia dell’arte sulla piccolezza della superbia e del Dio denaro.