Negli anni Cinquanta la pratica del “vuoto a rendere” era molto presente in Italia, ma con l’avvento del boom economico, della plastica e sopratutto della comodità della plastica monouso, questa pratica ha iniziato a cadere in disuso.
Di che cosa si tratta?
Il sistema è molto semplice. In passato, per i beni conservati in bottiglie di vetro, si pagava una piccola “cauzione” per il contenitore. Questo perché, dopo l’utilizzo, l’acquirente poteva restituire il contenitore vuoto all’esercente che avrebbe provveduto al rimborso, oppure comprare un nuovo prodotto pagando esclusivamente il contenuto.
Il “vuoto a rendere” ha come obiettivo centrale quello di far capire ai consumatori la necessità di riutilizzare beni e contenitori, oltre ad alleggerire la quantità di rifiuti che viene prodotta.
I contenitori più resistenti vengono sterilizzati e questo processo richiede il 60% di energia in meno rispetto a quella necessaria per realizzare un nuovo contenitore realizzato con materiale riciclato. In Italia questa pratica è stata reintrodotta solo negli ultimi anni (2017), anche grazie allo sviluppo di una maggiore attenzione rivolta all’ambiente da parte della popolazione italiana. L’iniziativa, introdotta con il decreto n. 142 del 2017, è durata ben poco. La fase sperimentale di un anno infatti è stata un fallimento e non è stata rinnovata.
Perché?
In Germania dobbiamo considerare che ogni attività commerciale di tipo alimentare è costretta ad accettare la restituzione dei recipienti, anche nel caso di acquisti fatti al di fuori del proprio negozio. In Italia non era stato dato nessun obbligo, ma la libertà di aderire alla fase sperimentale. Il singolo commerciante poteva scegliere quindi se pagare la cauzione ai consumatori che avrebbero restituito bottiglie e contenitori. L’importo della cauzione naturalmente sarebbe dipeso dal valore del singolo “vuoto” che si restituisce: ad esempio 5 centesimi per una lattina da 200ml e 30 centesimi per una bottiglia da un litro e mezzo.
In Italia come appena ricordato, la fase sperimentale, tuttavia, non ha funzionato: il progetto, infatti, avrebbe comportato troppi oneri per i commercianti, i quali avrebbero dovuto dotarsi di depositi e magazzini per poter avviare un programma di vuoto a rendere. Infine, tra i vari problemi, meritano menzione le difficoltà del Governo sulla promozione dell’iniziativa; non ci sono state campagne informative né è stata mai promossa la nota etichetta green per le imprese che avrebbero aderito all’iniziativa.
Cosa accade oggi?
Nonostante il fallimento della fase sperimentale nel 2017, il Governo ha deciso di reintrodurre la pratica del “vuoto a rendere” con il decreto Semplificazioni, convertito in legge a fine luglio. Il testo risulta ancora molto generico: «gli operatori economici, in forma individuale o in forma collettiva, adottano sistemi di restituzione con cauzione nonché sistemi per il riutilizzo degli imballaggi». Continua dicendo che sono previsti dei premi per i negozianti che lo adotteranno. In merito alla cauzione, questa viene sfruttata da sempre in alternativa al riciclo, ad esempio, nei circuiti commerciali ristretti e dalla logistica come le forniture domestiche di acqua minerale in bottiglie di vetro.
La legge vuole cercare di ampliare il riutilizzo anche verso circuiti commerciali più estesi e a materiali che non siano esclusivamente di vetro, come l’alluminio e la plastica. Oggi negli imballaggi si ricorre molto di più al riciclo rispetto al riuso: secondo i dati Conai dopo l’uso si ricicla il 48,7% della plastica. Entro la fine del 2021 il Ministero della transizione ecologica insieme al Ministero dello sviluppo economico dovranno sentire le imprese e le parti sociali coinvolte per delineare il regolamento applicativo che fissi i tempi, i modi, gli obiettivi di riutilizzo da raggiungere, i premi e gli incentivi economici per le aziende che vorranno sfruttare questa pratica.
Non mancano però i fattori negativi.
Non possiamo semplificare la questione indicando il sistema del “vuoto a rendere” come privo di costi economici e ambientali. Prima di tutto vi è un costo in termini di consumo di energia per la difficoltà della logistica e per la quantità degli imballaggi da spostare; inoltre, i contenitori da riutilizzare verrebbero conservati in luoghi in cui potrebbero essere esposti a contaminazione (es. retrobottega dei bar). Un altro aspetto è quello dei trasporti dei vuoti: i trasporti dei camion con recipienti “pieni” d’aria impattano sull’ambiente e sui costi del consumatore, in particolare si stima che oltre i 100 chilometri di distanza fra imbottigliamento e consumo il sistema di vuoto a rendere non risulti più efficace, bensì solo un costo in senso ambientale ed economico.
Concludendo, se vogliamo tutti insieme raggiungere gli obiettivi di sviluppo sostenibile previsti dall’Agenda 2030 ONU, è necessario un impegno bilaterale da parte sia del cittadino nel cambiare le proprie abitudini, privilegiando in questo caso il “riuso”, sia da parte di istituzioni governative attraverso leggi e regolamenti adeguati al processo di transizione ecologica.
Illustrazione di Michele Bettollini